Raccolta di racconti, favole e poesie

martedì 20 novembre 2012

Ligeia - Edgar Allan Poe


Per quanto frughi entro la mia anima non riesco a ricordare come, quando, e dove precisamente io abbia conosciuto per la prima volta Ligeia. Da allora molti anni sono trascorsi, e la mia memoria si è affievolita attraverso un lungo soffrire. O forse io non so rammentare ora questi particolari, perché in verità il carattere della mia adorata, il suo raro sapere, la sua bellezza singolare e così calma al tempo stesso, l'eloquenza eccitante, inebriante della sua sommessa voce musicale, s'insinuarono nel mio cuore per gradi così furtivamente e al tempo stesso così inesorabilmente progressivi che forse io mai li avvertii e li compresi del tutto. Credo tuttavia di averla incontrata per la prima volta e più di frequente in qualche grande, antica, decadente città presso le rive del Reno. Della sua famiglia devo certamente aver inteso parlare. Non v'è dubbio che essa risalga a un'epoca remotissima. Ligeia! Ligeia! Sprofondato in studi di una natura più che altro adatta a soffocare le impressioni del mondo esterno, è con questo dolce nome soltanto, col nome di Ligeia, che io riesco a riportare davanti agli occhi della mia fantasia l'immagine di colei che non è più. E proprio ora, mentre scrivo, subitamente mi colpisce la constatazione che io non ho mai saputo il casato di colei che mi fu amica e promessa sposa, e che divenne la compagna dei miei studi, e infine la moglie del mio cuore. Fu forse una sfida scherzosa da parte di Ligeia? O forse fu una prova con cui ella volle saggiare l'intensità del mio affetto, ch'io non avessi a porle alcuna domanda su questo punto? O forse fu soltanto un mio capriccio, un'offerta pazzamente romantica al santuario della più appassionata devozione? Ricordo solo vagamente il fatto in sé, quale meraviglia dunque ch'io abbia totalmente scordate le circostanze che l'originarono o lo seguirono? E se in verità quello spirito che si chiama Avventura,  se mai l'esangue Ashtofet dalle ali di nebbia dell'idolatra Egitto presiedette, come si narra, ai matrimoni sfortunati, allora certissimamente la lugubre dea dovette presiedere al mio.
Vi è però un argomento caro sul quale la mia memoria non ha esitazioni. E' la persona di Ligeia. Era alta di statura, piuttosto esile, e negli ultimi tempi di sua vita persino emaciata. Invano tenterei di descrivere la maestà, la tranquilla calma del suo portamento, o la inafferrabile leggerezza ed elasticità del suo passo. Ella veniva e si allontanava come un'ombra. Mai riuscii ad accorgermi del suo ingresso nel mio studio segreto se non per la cara musica della sua sommessa dolce voce, mentre mi posava sulla spalla la sua mano marmorea. Per bellezza il suo volto non fu mai eguagliato da quello di donna alcuna. Era la radiosità di un sogno d'oppio, un'aerea spirituale visione più trasumanamente divina delle fantasie che aleggiavano intorno alle anime sonnecchianti delle figliuole di Delo. Eppure i suoi tratti non avevano quell'impronta regolare che ci hanno falsamente insegnato ad adorare nelle opere classiche dei pagani. "Non esiste bellezza squisita", dice Bacone, signore di Verulamio, parlando con esattezza di tutte le forme e genera di bellezza, "senza una qualche stranezza di proporzioni". Tuttavia, pur vedendo che i lineamenti di Ligeia non avevano una regolarità classica, pur notando che la sua grazia era invero "squisita", e sentendo che questa sua grazia era profondamente pervasa di "stranezza", tuttavia ho cercato invano di scoprire la irregolarità e di fissare la mia concezione personale dello "strano". Studiavo il contorno dell'alta e pallida fronte: era impeccabile, per quanto fredda sia questa parola applicata a una maestà così divina! La carnagione rivaleggiava col più puro avorio; dal dolce rigonfiamento della regione sopra le tempie emanava un'impressione di comando e di riposo a un tempo; e quelle sue trecce, di un nero corvino, lucenti, lussureggianti, arricciantisi in buccoli naturali, che metteva in risalto tutta la piena vigoria dell'epiteto omerico "giacinteo"! Osservavo il delicato profilo del suo naso, ma in nessun luogo se non negli aggraziati medaglioni ebraici avevo contemplato una simile perfezione. Esso aveva la medesima opulenta levigatezza di superficie, la medesima appena percettibile tendenza all'aquilino, le stesse armoniosamente curve narici testimonianti del suo libero spirito. Osservavo la dolce bocca. Qui era veramente il trionfo di tutte le cose celesti: lo splendido contorno del breve labbro superiore, il tenero voluttuoso sonnecchiare di quello inferiore, le fossette che ridevano, il colore che parlava, i denti che rifrangevano  con una quasi sorprendente luminosità ogni raggio della celeste luce che cadeva su di loro nel suo sereno e placido, e tuttavia più esaltante e radioso di tutti i sorrisi. Scrutavo la forma del mento, e anche qui trovavo la serena ampiezza spirituale dei greci, il profilo che il dio Apollo rivelò soltanto in sogno a Cleomene, il figlio dell'Ateniese, e infine mi perdevo negli immensi occhi di Ligeia.
Per quegli occhi non esistono modelli nella remota antichità. Potrebbe anche darsi che negli occhi della mia amata si nascondesse il segreto cui allude il signor di Verulamio. Essi erano, devo credere, assai più grandi di quanto non siano solitamente gli occhi della nostra razza. Erano persino più pieni che non i pienissimi delle gazzelle della tribù che vaga nella valle di Nurjahad.  Tuttavia era soltanto a intervalli, nei momenti cioè di intensa emozione, che questo tratto caratteristico diveniva più spiccato in Ligeia. E in quei momenti la sua bellezza appariva (così almeno sembrava forse alla mia accesa fantasia) simile alla bellezza delle favolose Urì dei Turcomanni. L'ombreggiatura delle orbite era di un nero intenso, e su di esse si allungavano folte ciglia di color giaietto. Le sopracciglia, lievemente irregolari, erano dello stesso colore. La "stranezza", però, che io trovavo nei suoi occhi, era di una natura diversa dalla forma, o dal colore, o dalle luminosità dei tratti, e deve essere in definitiva riferita all'espressione. Ah, parola priva di significato! Dietro la cui vasta distesa di mero suono noi delimitiamo la nostra ignoranza di tanta parte del mondo spirituale. L'espressione degli occhi di Ligeia! Per quante lunghe ore io ho meditato su di essa! Quanto ho cercato durante tutta una notte di mezza estate di scandagliarla! Che cos'era quel qualcosa di più profondo del pozzo di Democrito che si nascondeva entro le pupille della mia amata? Che cos'era? Una curiosità ardente, appassionata, di scoprirlo si impadronì di me! Quegli occhi! Quelle grandi, quelle splendenti, quelle divine orbite! Esse erano divenute per me le stelle gemelle di Leda, e io per esse il più devoto degli astrologi.
Non esiste punto alcuno, tra le molte incomprensibili anomalie della scienza della mente, più emozionante ed eccitante del fatto (mai, ch'io sappia, notato nelle scuole) che, nei nostri sforzi per richiamare alla memoria qualcosa da molto dimenticato, spesso ci troviamo proprio sull'orlo stesso del ricordo, senza tuttavia essere in grado, in definitiva, di ricordare. Così quante volte, nel mio intenso studio degli occhi di Ligeia, ho sentito approssimarsi la comprensione piena della loro espressione, l'ho sentita approssimarsi senza che per altro divenisse completamente mia, per poi al fine sparire del tutto? E (strano, stranissimo di tutti i misteri!) trovavo, nei più comuni oggetti dell'universo, un cerchio di analogie a quell'espressione. Intendo dire che successivamente al tempo in cui la bellezza di Ligeia penetrò entro il mio spirito, dimorandovi poi come in un santuario, io traevo, dalle molte esistenze del mondo materiale, un sentimento che sempre avvertivo risvegliato in me dalle sue grandi luminose orbite. E tuttavia non sapevo mai come definire questo sentimento, né come analizzarlo, e neppure come valutarlo con sicurezza. Lo coglievo, lasciatemelo ripetere, a volte nella contemplazione di una vigna in rigogliosa crescita, o nella vista di una falena, oppure di una farfalla, di una crisalide, di un fluire di acqua corrente. L'ho avvertita nell'oceano, e nella caduta di  una meteora. L'ho sorpresa negli sguardi di gente vecchissima, e vi sono una o due stelle in cielo (una soprattutto, una stella di sesta grandezza, doppia e mutevole, che si trova presso la grande stella della Lira) che da me osservate al telescopio mi hanno reso consapevole di questa sensazione. Ne sono stato invaso da alcuni suoni di strumenti a corda, e a volte dai brani di alcuni libri. Tra innumerevoli altri esempi ricordo precisamente alcune righe nelle quali mi sono imbattuto durante la lettura di un volume di Joseph Glanvill, le quali (forse soltanto per la loro stranezza: chi può dirlo?) sempre mi ispirarono questo sentimento: "E la volontà consiste in ciò che non muore. Chi conosce i misteri della volontà, e il suo vigore? Perché Iddio non è che un immenso volere che pervade tutte le cose con la natura del suo intendimento. L'uomo non si arrende agli angeli, né completamente alla morte, se non attraverso la fralezza del suo debole volere".
Un lungo trascorrere di anni e di meditazioni successive mi hanno consentito infatti di rintracciare un lontano rapporto tra questo brano del moralista anglosassone e una parte del carattere di Ligeia. Una intensità di pensiero, di azione, di eloquio, era forse in lei il risultato, o per lo meno un indice, di quella volitività titanica che durante la nostra lunga intimità mai aveva dato altra e più immediata testimonianza della propria esistenza. Di tutte le donne che io ho conosciute, Ligeia, l'esteriormente calma, la sempre serena Ligeia, era invece tanto più violentemente dilaniata dai turbinosi avvoltoi della cupa passione. E di questa passione io non ero in grado di misurare l'abisso se non per la sovrannaturale dilatazione di quegli occhi che mi rapivano e mi sgomentavano ad un tempo, per la melodia, la modulazione, la precisione e la placidità quasi magiche della sua voce bassissima, e per la selvaggia energia (resa doppiamente efficace dal contrasto col modo con cui erano espresse) dalle indomite parole che ella solitamente proferiva.
Ho già accennato al sapere di Ligeia: esso era immenso, quale mai ho veduto in donna alcuna. Era versatissima nelle lingue classiche, e sin dove si estendeva la mia conoscenza personale nei riguardi dei moderni idiomi europei io non l'ho mai colta in fallo. Del resto quando mai ho colto in fallo Ligeia su un argomento qualsiasi della più ammirata, semplicemente perché la più astrusa, della tanto vantata erudizione delle accademie? Con quanto singolare conturbante vigore questo lato della natura di mia moglie ha attratto la mia attenzione, in quest'ultimo periodo di tempo soprattutto! Ho detto che il suo sapere era quale io mai avevo conosciuto in donna alcuna; ma dove esiste l'uomo che abbia esplorato e con successo tutti gli sconfinati campi delle scienze morali, fisiche, matematiche? Io a quel tempo non vedevo ciò che ora invece distinguo chiaramente, che cioè le cognizioni di Ligeia erano enormi, erano stupefacenti, tuttavia ero abbastanza conscio della sua infinita supremazia per rimettermi con fiducia infantile alla sua guida attraverso il caotico mondo della ricerca metafisica della quale mi ero intensamente occupato durante i primi anni del nostro matrimonio. Con quale senso di trionfo, con quale inebriante gioia, con quale sensazione eterea di speranza, sentivo, mentre ella si chinava su di me in studi rari e poco noti, quel meraviglioso panorama allargarsi dinanzi a me per lenti gradi; come sentivo che attraverso quel lungo, splendido sentiero non ancora percorso da alcuno io avrei potuto finalmente muovere innanzi verso la meta di una saggezza troppo divinamente preziosa per non essere proibita!
Quanto doloroso deve dunque essere stato l'affanno con cui, alcuni anni più tardi, io vidi le mie tanto attese speranze mettere le ali e fuggire! Senza Ligeia ero come un bambino che si aggira a tastoni la notte. La sua presenza, le sue letture semplicemente, rendevano vividamente luminosi i molteplici misteri del trascendentalismo nel quale eravamo immersi. Senza il radioso splendore dei suoi occhi, le lettere, fiammee e dorate, divenivano più opache del piombo saturnio. Ed ecco che quegli occhi brillano sempre meno di frequente sulle pagine da me compulsate. Ligeia si ammalò. I suoi occhi smarriti lucevano di un troppo... troppo glorioso fulgore; le pallide dita di lei assunsero la translucida cereità della tomba, le vene azzurrine della sua eccelsa fronte si inturgidivano e si afflosciavano d'impeto con l'avvicendarsi della finanche più lieve emozione. Compresi che ella sarebbe morta, e lottai disperatamente in ispirito con il funebre Azrael. Ma il dibattersi appassionato di mia moglie era con mio stupore ancor più energico del mio stesso. Molti lati della sua natura austera mi avevano fatto supporre che per lei la morte sarebbe giunta senza i suoi consueti terrori; ma non fu così. Le parole sono impotenti a rendere con esattezza la tenacia di resistenza con cui ella lottò con l'Ombra. Io gemevo d'angoscia a quella vista miserevole. Avrei voluto calmarla, farla ragionare; ma, difronte all'intensità del suo disperato desiderio di vita, di vita, di vita soltanto, conforto e ragione erano pari alla più forsennata delle follie. Nondimeno soltanto in ultimo, tra gli spasimi e i contorcimenti convulsi del suo ardente spirito, la serenità esteriore del suo comportamento si scosse. La sua voce si era fatta più dolce, più sommessa, tuttavia io non desideravo soffermarmi sullo sconnesso significato delle sue parole proferite con tanta placidità. Il mio cervello vacillava mentre ascoltavo rapito una melodia più che terrena, e concetti e aspirazioni che esseri mortali mai avevano conosciuti prima.
Ch'ella mi amasse non avrei dovuto dubitarlo, e mi sarebbe stato facile accorgermi che in un animo quale il suo l'amore avrebbe regnato con una passione non comune. Ma soltanto nella morte compresi appieno la forza del suo affetto. Per lunghe ore, tenendomi la mano, ella mi riversò i traboccamenti di un cuore la cui devozione più che appassionata sfiorava l'idolatria. Cosa avevo fatto per meritare di essere benedetto da così sublimi confessioni? Cosa avevo fatto per essere maledetto con la privazione della mia adorata proprio nell'ora in cui ella si rivelava a me? Ma non reggo al pensiero di dovermi dilungare su questo argomento. Lasciatemi dire soltanto che nell'abbandono più che femminile di Ligeia a un amore ahimè del tutto immeritato, del tutto indegnamente ricevuto, io riconobbi infine il principio del suo agognare con così disperata energia a quella vita che ora stava sfuggendo da lei tanto rapidamente. E' questo disperato agognare, è questa appassionata veemenza di desiderio di vita, di vita soltanto, che io non ho potere per raffigurare, non linguaggio capace di esprimere.
Al colmo della notte in cui ella mi lasciò, mi chiamò perentoriamente al suo capezzale e mi fece ripetere alcuni versi da lei composti non molti giorni prima. Le obbedii.
Eccoli:


Guarda! E' una notte sfarzosa
di questi ultimi anni solitari!
Una coorte angelica, alata, avvolta
in veli, sommersa in lacrime,
siede in un teatro a contemplare
uno spettacolo di speranze e di timori,
mentre l'orchestra suona capricciosamente
la musica delle sfere.

Mimi, foggiati a sembianza della Deità eccelsa,
brontolano e mormorano sommessi,
e qua e là volteggiano:
semplici marionette sono coloro che vanno e vengono
al comando di immense cose informi,
che spostano la scena innanzi e indietro,
sbattendo dalle loro ali di condor,
invisibile Dolore!

Quale variopinto dramma! Oh, rassicurati,
non sarà dimenticato!
Né lo sarà il suo fantasma inseguito in eterno
da una folla che non saprà afferrarlo
entro un cerchio eternamente ritornante
al medesimo identico punto,
e molto è Pazzia, e molto è Peccato,
e Orrore è l'anima della trama.

Ma guarda, tra la folla dei mimi,
una strisciante forma s'insinua!
Una cosa rossosangue che esce torcendosi
fuori dalla scenica solitudine!
Si torce! Si torce! Con mortali spasimi
i mimi divengono suo cibo,
e i serafini singhiozzano alla vista di zanne vermicanti
imbevute di umano cruore.

Spente, spente sono le luci, spente tutte!
E su ciascuna rabbrividente forma
il sipario, lenzuolo funebre,
scende col fragore di un uragano,
e gli angeli, pallidi, esangui,
innalzandosi, svelandosi, affermano
che l'opera è la tragedia "L'Uomo",
che il suo eroe è il Conquistatore Verme.

"O Dio!", quasi urlò Ligeia, balzando in piedi e tendendo alte le braccia in un gesto spasmodico, mentre io terminavo di leggerle questi versi. "O Dio! O Divino Padre! Devono queste cose sempre inesorabilmente essere? Non può il Conquistatore essere almeno una volta conquiso? Non siamo noi parte e particelle di Te? Chi, chi conosce i misteri della volontà, e il suo vigore? L'uomo non si arrende agli angeli, né completamente alla morte, se non attraverso la fralezza del suo debole volere".
Poi, come se quello scoppio di commozione l'avesse annientata, lasciò ricadere le sue bianche braccia e si riadagiò solennemente sul suo letto di morte. E mentre ella esalava l'ultimo respiro, uscì dalle sue labbra, misto ai suoi supremi aneliti, un mormorio sommesso. Accostai il mio orecchio alla sua bocca e vi colsi ancora una volta le parole finali del passo di Glanvill: L'uomo non si arrende agli angeli, né completamente alla morte, se non attraverso la fralezza del suo debole volere.
Così Ligeia morì, e io, ridotto a un pugno di polvere calpestata dal dolore, non potei più sopportare la desolazione solitaria della mia dimora nella sfocata decadente città sulle sponde del Reno. Non mi mancava ciò che il mondo chiama ricchezza. Ligeia mi aveva portato in dote molto di più di quanto solitamente tocca in sorte ai mortali. perciò in capo ad alcuni mesi, dopo aver vagabondato stancamente e senza meta, acquistai e riattai un'abbazia di cui non farò il nome, in una delle contrade più selvagge e meno frequentate della bella Inghilterra. La tetraggine e la squallida grandiosità della costruzione, l'aspetto pressoché incolto della tenuta, le malinconiche e antichissime memorie connesse a entrambe, avevano molta affinità con i sentimenti di totale abbandono che mi avevano spinto in quella regione insocievole e remota del paese. Mentre però all'esterno l'abbazia, tutta avvolta nel suo verzicante decadimento, subì pochissimi mutamenti, io mi sbizzarii all'interno con una perversità fanciullesca, e fors'anco con una vaga speranza di alleviare le mie sofferenze, in una sfoggio di sfarzo più che regale. Io infatti mi ero inebriato sin dalla fanciullezza di simili follie e ora queste tornavano ad assillarmi, quasi che il dolore mi avesse portato a un prematuro vaneggiamento senile. Ahimè, comprendo come si potesse persino avvertire un principio di pazzia nei drappeggiamenti sgargianti, fantastici, nelle monumentali sculture egizie, negli stipiti, nella mobilia di un gusto audacissimo, nei disegni manicomiali dei tappeti d'oro trapunto! I lacci dell'oppio mi avevano avvinto e ridotto in servitù, e le mie fatiche e i miei studi si erano colorati del riflesso dei miei sogni. Non mi soffermerò però a narrare particolareggiatamente di queste assurdità. Lasciate che vi parli soltanto di quell'unica camera, per sempre maledetta, dove in un momento di alienazione mentale io portai all'altare come mia sposa, a succedere alla non dimenticata Ligeia, la biondochiomata e occhiazzurrina lady Rowena Trevanion di Tremaine.
Non vi è parte sia pur minima dell'architettura e della decorazione di quella camera nuziale che io non abbia ben visibile davanti agli occhi. Dov'erano gli spiriti dell'altera famiglia della sposa allorché per pura sete d'oro essi consentirono che una fanciulla, una figlia tanto amata, varcasse la soglia di una stanza così ornata? Ho detto che ricordo minutamente tutti i particolari di quella stanza (per quanto io possieda pochissima memoria su argomenti di grave momento), eppure non vi era un sistema, un ordine purchessia, in quello sfoggio fantastico, che potesse avere una presa sulla memoria. La stanza era posta entro un'alta torre dell'abbazia merlata, era di forma pentagonale, e assai vasta. Tutta la faccia meridionale del pentagono  era occupata da un'unica finestra, un'immensa lastra intatta di cristallo veneziano, una singola invetriata, tinteggiata di una sfumatura plumbea, cosicché i raggi sia del sole che della luna penetrandovi attraverso cadevano sugli oggetti contenuti nell'interno con un lividore spettrale. Sulla parte superiore di questa sterminata finestra si stendeva l'intrico di una foltissima vite vergine arrampicantesi sin lì lungo le massicce mura della torre. Il soffitto, di quercia tetra, era altissimo, a volta, elaboratamente ornato dei più strani e più grotteschi esemplari di un capriccio semigotico, semidruidico. Dal ricettacolo più centrale di questa malinconica volta pendeva, mediante un'unica catena d'oro a lunghi anelli, un immenso bruciaprofumi del medesimo metallo, di modello saraceno e tutto traforato in modo che ne uscissero e ne entrassero torcendosi come se fossero impregnate di una vitalità serpigna lingue di fuoco multicolore in successione continua.
Sparsi qua e là in vari punti vi erano alcuni divani e candelabri dorati di foggia orientale, e vi era pure il talamo, il talamo nuziale, di fattura indiana, basso, scolpito in solido ebano e ricoperto di un baldacchino color del drappo funebre. In ciascun angolo della camera troneggiavano giganteschi sarcofaghi di granito nero tolti alle tombe dei re nella lontana Luxor, con i loro antichi coperchi adorni di immemoriali sculture. Ma, ahimè! nei panneggiamenti della stanza consisteva soprattutto la più fantastica delle mie follie. Le immense pareti, di altezza gigantesca, persino sproporzionate, erano ricoperte da cima a fondo di una tappezzeria pesante, massiccia, ricadente in vaste pieghe, di una stoffa che ricorreva uguale come tappeto sul pavimento, come coperta dei divani e del letto d'ebano, come baldacchino del talamo, e che si ripeteva in ampie volute nei cortinaggi che ombreggiavano parzialmente la finestra. Era un tessuto sfarzosamente tramato d'oro. Qua e là, a intervalli regolari, era tutto punteggiato di figure arabescate, larghe circa trenta centimetri, e intessute nella stoffa di disegni del più intenso nero. Queste figure però rivelavano il vero aspetto dell'arabesco solo se osservate da un unico punto. Grazie a un artificio ormai comune, e del resto noto in periodi anche remoti dell'antichità, esse erano state trapunte in modo da apparire mutevoli alla vista. Per chi entrasse nella stanza potevano sembrare semplici mostruosità, a avanzando ulteriormente, questa apparenza gradatamente svaniva, e a ogni passo che muoveva innanzi il visitatore si vedeva circondato da una successione interminabile di quelle forme spettrali che appartengono alla superstizione dei normanni o sorgono nei colpevoli sonni dei monaci. Questo effetto fantasmagorico era reso ancora più intenso dall'introduzione di una forte continua corrente di vento artificiale spirante dietro i panneggi e che dava al tutto un'animazione paurosa.
In tale atmosfera, in una camera nuziale come quella, io trascorsi con la signora di Tremaine le empie ore del primo mese del nostro matrimonio. Le trascorsi con non poca inquietudine. Che mia moglie paventasse l'irosa ombrosità del mio carattere, che tentasse i scansarmi e mi amasse assai poco, questo non potevo fare a meno di notarlo, ma anziché dispetto il suo timore di me mi procurava piacere. Io la odiavo con un odio più demoniaco che umano. Il mio ricordo rivolava (oh! con quale intensità di rimpianto!) a Ligeia, l'amatissima, l'augusta, l'incomparabile, la sepolta. Mi rapivo nel ricordo della sua purezza, del suo sapere, della sua eccelsa eterea natura, del suo appassionato idolatra amore. Allora veramente il mio spirito bruciò tutto e completamente libero di tutti i fuochi di lei, e oltre. Nell'eccitazione dei miei sogni oppiati (poiché ero ormai abitualmente incatenato ai ceppi della droga) io invocavo forte il suo nome nel silenzio della notte, oppure durante il giorno tra gli ombrosi recessi delle valli, quasiché, nella disperata angoscia, nell'austera passione, nel divorante ardore del mio desiderio per la donna scomparsa io potessi ricondurla sul sentiero che ella aveva abbandonato (ah, era mai possibile che fosse per sempre?) su questa terra.
All'inizio del secondo mese di matrimonio, lady Rowena fu colta da una malattia improvvisa dalla quale si riebbe lentamente. La febbre che la consumava rendeva inquiete le sue notti, e nel suo stato agitato di dormiveglia parlava di rumori e di movimenti dentro e fuori della stanza della torre che io conclusi non potessero avere origine se non nello smarrimento del suo intelletto, o forse negli influssi fantasmagorici della camera stessa. Alla fine entrò in convalescenza, e ben presto guarì. Ma non trascorse molto che un secondo male ancora più violento la fece ricadere su un letto di sofferenze, e da questa crisi la sua costituzione che era sempre stata debole non si riebbe mai del tutto. I suoi mali erano in quel periodo di una natura allarmante e di una frequenza ancora più allarmante, e sfidavano sia la dottrina sia i tentativi dei suoi medici. Con l'aumentare di questa malattia cronica che si era con ogni apparenza talmente radicata nel suo fisico da non poter essere debellata con mezzi umani, io non potei non notare un analogo aumento del suo stato d'irritazione nervosa e della sua eccitabilità e predisposizione alla paura per i motivi più comuni. Riprese a parlare, adesso con più frequenza e più pertinacia, dei rumori, lievi rumori, e dei movimenti inconsueti tra i panneggi, di cui già aveva fatto cenno in precedenza.
Una sera, sul finire di settembre, ella sottopose con più energia del solito alla mia attenzione questo argomento conturbante. Si era appena svegliata da un sonno agitato, mentre io ero rimasta a osservare, con un sentimento misto di angoscia e di vago terrore, le smorfie dolorose del suo volto emaciato. Sedevo a fianco del suo letto d'ebano, su un divano indiano. Ella si levò parzialmente a sedere, e parlò in un sussurro sommesso, ansioso, di rumori che aveva allora uditi, ma che io non potevo udire; di movimenti che ella aveva allora veduti, ma che io non riuscivo a scorgere. Il vento stormiva senza posa dietro i cortinaggi e io desideravo dimostrarle (cosa che, debbo confessarlo, non riuscivo del tutto a credere) che quei sospiri pressoché inarticolati, quelle lievissime variazioni delle figure sulla parete non erano che il risultato naturale della solita corrente d'aria circolante in perpetuo. Ma il pallore mortale che le aveva ricoperto il volto mi aveva dimostrato che i miei sforzi per rassicurarla sarebbero stati inutili. Sembrava fosse sul punto di svenire e non vi era alcun domestico a portata di voce. Mi rammentai che in un angolo della stanza era stato posato un boccale di vino leggero ordinatole dai suoi medici, e mi diressi rapidamente da quella parte, ma mentre avanzavo sotto la luce dei bruciaprofumi la mia attenzione fu attratta da due fatti che mi lasciarono sbalordito e perplesso. Avevo avuto l'impressione che un oggetto palpabile sebbene invisibile mi fosse passato lievemente accanto, e notai che sul tappeto dorato, proprio al centro del vivido cerchio di luce gettato dal bruciaprofumi, si allungava un'ombra vaga, indefinita, di aspetto angelico, quale potrebbe essere immaginata l'ombra di un'ombra. Il mio cervello però era annebbiato da una dose eccessiva di oppio, e non feci molto caso a queste mie impressioni, né vi accennai con Rowena. Presi il vino, riattraversai la stanza, riempii un calice che tesi alle labbra esangui della donna semisvenuta. Rowena si era però in parte riavuta e strinse da sola la coppa tra le mani, mentre io ricadevo a sedere su un vicino divano, gli occhi fissi sulla sua persona. Fu allora che avvertii distintamente un lieve rumore di passi sul tappeto e accanto al letto, e un attimo dopo, mentre Rowena era in atto di portare il vino alle labbra, vidi, o forse sognai di aver veduto, cadere entro la coppa, come da un'invisibile sorgente zampillante nell'atmosfera stessa della stanza, tre o forse quattro grosse gocce di un fluido luminoso di color rubino. Se questo io vidi, non lo vide certo Rowena. Ella trangugiò il vino senza esitare e io mi astenni dal parlarle di un fatto che, dopo tutto, riflettevo, non doveva essere stato che il frutto della mia immaginazione sovreccitata, e resa morbosamente fertile dal terrore della donna, dall'oppio e dall'ora.
Tuttavia non mi fu possibile negare ai miei sensi che subito dopo la caduta delle gocce color rubino un rapido peggioramento sopravvenne nella malattia di mia moglie, tanto che, in capo a tre notti, le mani delle sue ancelle già la preparavano per la tomba, e la quarta notte io sedevo solo, accanto al suo corpo avvolto nel sudario, in quella spettrale stanza che l'aveva accolta come mia sposa. Visioni fantastiche, generate dall'oppio, aleggiavano come ombre intorno a me. Io fissavo con sguardo inquieto i sarcofaghi agli angoli della stanza, le trasmutanti figure dei panneggi, i contorcimenti delle multicolori lingue di fiamma nel bruciaprofumi pendente sopra il mio capo. Rammentando le circostanze di poche notti innanzi, i miei occhi caddero sul punto circoscritto dalla macchia di luce del turibolo dove io avevo notate le vaghe tracce dell'ombra. Ma questa non vi era più, e respirando più liberamente volsi il mio sguardo alla pallida rigida figura sul letto. Allora mi invasero mille ricordi di Ligeia, e il mio cuore si gonfiò con la turbolenta impetuosità di una piena di tutto quell'indicibile dolore con cui io avevo contemplato lei così avvolta entro un lenzuolo funebre. La notte trascolorò, e sempre con l'animo pieno di amari pensieri al ricordo dell'unica sola e supremamente amata io rimasi a contemplare il corpo di Rowena.
Poteva essere stata la mezzanotte, forse fu prima, forse dopo, perché non avevo fatto caso al tempo, allorché un singhiozzo, sommesso, lieve, ma distintissimo, mi risvegliò bruscamente dal mio fantasticare. Ebbi l'impressione che provenisse dal letto d'ebano, dal  letto di morte. Rimasi in ascolto, in preda a un'agonia di terrore superstizioso: ma il suono si ripeté. Affissai lo sguardo, per poter scorgere nel cadavere un qualsiasi possibile movimento, ma non avvertii nemmeno il più lieve ondeggiare. E tuttavia non potevo essermi ingannato. Avevo udito il rumore, per quanto flebile, e la mia anima si era risvegliata entro di me. Risolutamente, ostinatamente, tenni fissa la mia attenzione sul cadavere. Trascorsero molti minuti prima che sopravvenisse una circostanza che potesse far luce sul mistero. Alla fine apparve evidente che una sfumatura di colore lievissima, debolissima, appena percettibile, ne aveva invermigliate le guance soffondendo anche le infossate venuzze delle palpebre. In preda a un orrore e a un terrore indicibili, a esprimere i quali il linguaggio degli uomini non ha forza bastante, sentii il mio cuore cessar di battere e le mie membra irrigidirsi nella posizione stessa in cui ero seduto. Ma alla fine un senso di dovere mi costrinse a riprendere possesso di me. Non potevo più dubitare che fossimo stati troppo precipitosi nei nostri preparativi, e che Rowena vivesse ancora. Occorreva far subito qualche tentativo immediato; ma la torre era completamente isolata dall'ala dell'abbazia occupata dai domestici. Non v'era nessuno a portata di voce. Non mi era possibile chiamarli in mio soccorso senza essere costretto a lasciare la camera per parecchi minuti, una cosa che non potevo arrischiarmi a fare. Lottai perciò da solo nel tentativo di richiamare lo spirito di Rowena ancora aleggiante nel suo corpo. Quasi subito mi avvidi che un nuovo peggioramento si era operato. Il colore era nuovamente scomparso sia dalle palpebre sia dalle guance, lasciandola più pallida ed esangue del marmo stesso; le labbra si raggrinzirono e si tesero nella paurosa espressione della morte; su tutta la superficie del suo corpo si sparse un madore freddo e repellente, e subito sopravvenne la consueta rigidità cadaverica. Ricaddi con un brivido sul divano da cui mi ero levato con tanto impeto, e le visioni diurne di Ligeia che già mi avevano ossessionato ripresero a presentarmisi più appassionatamente che mai.
Trascorse così un'ora, quando (era dunque possibile?) per la seconda volta mi accorsi di un rumore vago proveniente dal lato del letto. Stetti in ascolto, in preda a un orrore supremo. Il rumore si ripeté: era un sospiro. Accorsi verso il cadavere, e vidi, vidi nitidamente, un tremito agitarne le labbra. Un attimo dopo queste si dischiusero rivelando una lucente fila di denti perlacei. Nel mio petto lottava ora con il terrore che sino a quel momento vi aveva regnato sovrano uno stupore profondo. Sentivo che la vista mi vacillava, che la mia ragione barcollava, e soltanto con un violento sforzo su me stesso riuscii a impormi il compito che il dovere ancora una volta mi indicava. Ecco che dalla fronte, dalle guance e dalla gola irradiava ora un barlume di colore; un calore sensibile aveva pervaso tutto il corpo; persino il cuore pulsava debolmente. La donna viveva, e con raddoppiato ardore mi accinsi a ridarle i sensi. Le massaggiai e bagnai le tempie e le mani, e mi servii di tutto ciò che mi suggeriva l'esperienza unita a un non del tutto trascurabile sapere medico. Ma invano. Improvvisamente il colore disparve, le pulsazioni cessarono, le labbra ripresero un aspetto inerte, e subito dopo il corpo riacquistò la gelida freddezza, la sfumatura livida, la rigidità intensa, il profilo infossato, tutte insomma le disgustose caratteristiche di un cadavere già da alcuni giorni inumato.
Ed ecco che le visioni di Ligeia mi riassalirono, ed ecco che di nuovo (quale meraviglia che io rabbrividisca mentre scrivo) ecco che di nuovo dal lato del letto mi giunse alle orecchie un singhiozzo sommesso. Ma perché dovrei descrivere minutamente gli inspiegabili orrori di quella notte? Perché dovrei soffermarmi a ripetere come, quasi a ogni attimo, sin quasi al sorgere della grigia alba, questo spaventoso dramma di riviviscenza si ripetesse; come ogni terrificante ricaduta non fosse che uno sprofondamento in una morte più assoluta e apparentemente più irrevocabile; come ogni agonia assumesse l'aspetto di una lotta con qualche invisibile nemico; come a ciascuno di questi conati succedesse non so quale inspiegabile mutamento nell'aspetto fisico del cadavere? Lasciate che mi affretti alla conclusione.
La più gran parte di quella notte era trascorsa, e colei che era morta aveva riacquistato più e più volte parvenza di vita, e ogni volta con più vigore delle precedenti, benché si levasse da una dissoluzione a ogni stadio sempre più spaventosa, nei disperati e vani sforzi per combatterla a ogni nuovo tentativo di rinascita. Io avevo ormai da tempo cessato sia di lottare che di muovermi, ed ero rimasto a sedere immobile sul divano, preda smarrita di un turbine di emozioni violente, tra le quali la meno terribile, la meno divorante era forse un supremo arcano terrore. Il cadavere, ripeto, si muoveva, e adesso più energicamente delle altre volte. I colori della vita ne invermigliavano con inconsueta energia il volto, le membra si rilassarono, e, tranne che per le palpebre ancora pesantemente abbassate e per le acconciature e i panneggiamenti tombali che ancora davano alla figura un aspetto macabro, io avrei potuto immaginare che Rowena si fosse davvero liberata per sempre dei legami della Morte. Ma se io non potevo accettare del tutto questa realtà neppure in quel momento, non mi fu più possibile dubitare, allorché, levandosi dal letto, e vacillando con deboli passi, con occhi chiusi, con l'atteggiamento di chi è reso attonito da un sogno, la cosa avvolta nel sudario avanzò audacemente, tangibilmente, sin nel mezzo della stanza.
Io non tremai, non mi mossi, poiché una folla di pensieri indicibili suggeritimi dall'aspetto, dalla statura, dal portamento dell'immagine, pensieri che si accavallavano furiosamente nel mio cervello, mi aveva paralizzato, mi aveva impietrito. Non mi mossi; ma i miei occhi erano come inchiodati sull'apparizione. Nelle mie idee si era fatto un disordine forsennato, un tumulto che nulla avrebbe potuto placare. Poteva essere davvero la Rowena vivente colei che mi fissava? Che dico, poteva essere Rowena affatto, la biondochiomata, l'occhiazzurrina lady Rowena  Trevanion di Tremaine? Perché, perché dubitavo di questo? La benda legava strettamente la bocca; ma non poteva essere dunque la bocca della respirante signora di Tremaine? E le guance, rosee come nel meriggio della sua vita, sì, le guance potevano in verità essere le dolci guance della vivente dama di Tremaine. E il mento, punteggiato di fossette, come quando era sana, non poteva essere il suo? Ma era dunque cresciuta di statura dopo la malattia? Quale inspiegabile follia mi colse a quel pensiero? Un balzo e le fui ai piedi! Rifuggendo dal mio contatto ella lasciò cadere sciolti dal capo i drappi funebri in cui questo era stato avvolto, ed ecco uscire e agitarsi nella turbinante atmosfera della camera folte masse di lunghi e scarmigliati capelli; più nere, erano queste chiome, delle corvine ali della mezzanotte! Poi gli occhi della figura che mi stava dinanzi lentamente si apersero. "In questo almeno", urlai a gran voce, "mai... mai potrò ingannarmi... Ecco i grandi, ecco i neri, ecco i fulgidi occhi... del mio perduto amore... della mia donna... di lady Ligeia".