Raccolta di racconti, favole e poesie

lunedì 3 dicembre 2012

Solitudine, se abitare devo... - John Keats


Solitudine, se abitare devo
con te, non sia nel mucchio mal congesto,
tetro, di case; meco sali l'erta,
specula di natura, onde la valle,
i fioriti pendii, la cristallina
piena del fiume, possano sembrare
brevi, una spanna; e faccia io le tue scolte
ove son tenda i rami, ove balzando
rapido il daino mette in fuga l'ape
selvatica dal calice dei fiori.
Amo andar teco queste scene; pure
quel dolce con un animo innocente
conversare, che specchio sue parole
sono di squisitezza dei pensieri,
questo della mia anima è il diletto;
e certamente per l'umana specie
quasi beatitudine suprema
dev'esser quando in tuoi soggiorni due
spiriti affini trovano rifugio.

***

O solitude! If I must with thee dwell,
Let it not be among the jumbled heap
Of murky buildings; climb with me the step, -
Nature's observatory - whence the dell,
Its flowery slopes, its river's crystal swell,
May seem a span; let me thy vigils keep
'Mongst boughs pavillion'd where the deer's swift leap
Startles the wild bee from fox-glove bell.
But though I'll gladly trace these scenes with thee,
Yet the sweet converse of an innocent mind,
Whose words are images of thoughts refin'd,
Is my soul's pleasure; and it sure must be
Almost the highest bliss of human-kind,
When to thy haunts two kindred spirits flee.

Il baule volante - Hans Christian Andersen


C'era una volta un mercante, tanto ricco che avrebbe potuto far lastricare coi suoi talleri sonanti tutta una strada e anche un vicolo per di più. Ma non lo fece, poiché sapeva impiegare ben diversamente il suo denaro: bastava che spendesse un solo soldo, che gli fruttava subito un tallero intero. Benché fosse un mercante così abile, giunse anche per lui il giorno della morte.
Il figlio, avendo ereditato tutto quel denaro, cominciò a condurre una vita molto dispendiosa e allegra: andava ogni notte ai balli mascherati, faceva aquiloni con i biglietti di banca, e in riva al lago si divertiva a giocare a rimbalzello con dolci focacce e perfino con monete d'oro, anziché con i comuni sassolini. Così il denaro, sciupato in queste e altre stranezze, cominciò ad assottigliarsi, e un bel giorno finì.
il giovane si trovò con pochi soldi in tasca, mentre del suo ricco vestiario non gli era rimasto che un paio di pantofole e una vecchia veste da camera. Gli amici cominciarono a trascurarlo, perché si vergognavano di farsi vedere insieme a lui, ma uno di essi, un bonaccione, pensò di mandargli un vecchio baule, col consiglio di far fagotto e andarsene per il mondo, in cerca di miglior fortuna.
Ma che mettere nel baule, se non possedeva più nulla? Rimase un poco sovrappensiero, e poi finì per sedervisi lui stesso.
Era un baule veramente strano! Bastava premere la sua serratura che già esso s'innalzava in volo. Così il nostro giovane, senza che nemmeno se ne fosse accorto, si trovò improvvisamente a volare in alto, attraverso la cappa del camino, su su verso le nubi, lontano lontano. Egli sentiva di tratto in tratto scricchiolare il fondo del baule e, pieno di paura, pregava Dio che non si rompesse. Altrimenti chi sa che bel salto avrebbe fatto!
Dopo lungo volare giunse infine nel paese dei turchi. Nascose il suo strano baule tra le foglie di un bosco e si avviò verso la più vicina città. Il suo abbigliamento non aveva nulla di eccezionale per quelle contrade, dato che i turchi indossano abitualmente vesti lunghe e calzano pantofole.
Strada facendo si imbatté in una balia, che recava in braccio un bimbo.
"Senti un po', balia turca," le disse "che cos'è quel castello vicino alla città, con le finestre tanto alte?"
"E' la dimora della figlia del re" fu la risposta. "Le è stato predetto che avrebbe sofferto molto per un amore infelice, e il re e la regina l'hanno voluta relegare lassù, perché nessuno le si avvicini, a meno che essi stessi non siano presenti."
"Grazie" disse il figlio del mercante, e ritornato nel bosco, sedette dentro il suo baule; volò con esso fino al castello ed entrò direttamente nella camera della principessa.
Essa stava dormendo su un divano: era tanto graziosa nel sonno, che il giovane non poté fare a meno di baciarla teneramente. Spaventata, la fanciulla si destò, ma egli la rassicurò col dirle che era il dio dei turchi, sceso fino a lei dal cielo. E la principessa ne rimase molto lusingata.
Egli le sedette accanto e le parlò di cose bellissime: dei suoi occhi meravigliosi, oscuri e profondi come il mare, nei quali i pensieri vagavano come le vezzose sirene nei recessi marini, della sua fronte candida come una cima nevosa, con sopra un castello, ricco di saloni magnifici e splendide pitture. E le raccontò ancora tante cose meravigliose. Infine chiese la sua mano e lei gli disse subito di sì.
"Ma è bene che ritorniate il pomeriggio del sabato" soggiunse "quando il re e la regina, come di consueto, verranno a trovarmi. Certamente si sentiranno molto orgogliosi che il dio dei turchi si sia degnato di scegliermi per moglie. Dovreste raccontare loro, per distrarli, una bella favola. Mia madre preferisce storie serie e morali, mio padre predilige quelle allegre, che lo facciano divertire."
"Sta bene, sarà questo il mio dono nuziale" rispose il giovane, e con ciò si separarono. Prima però la principessa gli regalò una sciabola tempestata di monete d'oro, che gli giunse allora proprio a proposito!
Egli volò quindi via e andò a comprarsi una nuova veste; poi si recò nel bosco per comporre la favola richiesta. Era un compito non molto facile, tanto più che doveva essere finita entro il sabato prossimo.
La sera del giorno stabilito la fiaba era ultimata. Il giovane si recò al castello, dove il re e la regina con tutta la cortesi erano riuniti per riceverlo. Fu accolto con grandi onori.
"Vorreste narrarci una favola?" gli chiese la regina; "che sia seria e istruttiva."
"Ma anche allegra" soggiunse il re.
"Volentieri", rispose il giovane e si mise a raccontare. E ascoltiamolo attentamente anche noi.
"C'era una volta un mazzetto di fiammiferi, molto fieri della nobile loro origine. Il loro albero genealogico, infatti, era stato un gigantesco abete, e ciascuno di essi era appena una minuta scheggia di questa pianta annosa. Stavano ora su una mensola, in compagnia dell'acciarino e di una vecchia pentola di ferro, e rievocavano a questi gli anni più belli della loro giovinezza.
"Come si stava bene" dissero "quando eravamo appena dei rami verdi! La rugiada ci offriva mattina e sera il suo benefico ristoro, terso come il più luminoso dei diamanti. Il sole, quando c'era, ci mandava tutto il giorno i suoi raggi, e gli uccellini del bosco ci raccontavano le loro storie più belle. Sapevamo di essere anche ricchi, perché, mentre gli altri alberi si rivestivano di verdi fronde solo nella buona stagione, la nostra famiglia invece era in grado di procurarci abiti per tutto l'anno. Ma un brutto giorno vennero i boscaioli e misero tutto sottosopra: la nostra famiglia fu sterminata e ridotta in pezzi. Il nostro capostipite divenne l'albero maestro di un grande bastimento, e partì per conoscere il vasto mondo. Altri compiti toccarono agli altri rami, mentre noi siamo stati destinati a dar luce alla gente.
'Io posso raccontarvi ben altro' cominciò invece la sua narrazione la vicina pentola di ferro. 'Dacché sono venuta al mondo, molte volte mi hanno ripulita e messa sul fuoco a bollire. Sono l'arnese più solido in tutta la casa e, diciamo la verità, vi occupo un posto molto importante. Il mio solo divertimento consiste nello starmene, dopo i pasti, ben ripulita sulla mensola, in piacevole conversazione con i miei vicini. Facciamo tutti una vita molto ritirata qua dentro, a eccezione della secchia d'acqua, che a volte scende nel cortile.
L'unica a portarci qualche notizia dal mondo esterno è la borsa della spesa. Ma parla del governo e del popolo in tono troppo ribelle e violento, tanto che l'altro giorno una vecchia e pacifica marmitta, spaventata dai suoi discorsi rivoluzionari, cadde per terra e andò in mille pezzi. E' uno spirito troppo turbolento, indubbiamente!'
'Basta con le chiacchiere' intervenne l'acciarino, strofinando la pietra focaia, che sprizzò scintille. 'Anziché perderci in inutili racconti, cerchiamo di passare la serata un po' più allegramente!'
'Su, giudichiamo chi fra di noi è il più distinto' proposero i fiammiferi.
'Non mi par bello parlare di se stessi' osservò il vaso d'argilla. 'Propongo invece una piacevole serata di conversazione: ognuno di noi racconterà una sua avventura particolare. Sarà una cosa interessante sentire tutti. Cominciamo da me: sul Baltico, presso la corte dei danesi...'
'Che bell'inizio!' esclamarono in coro i piatti 'Sarà certo un racconto piacevole!'
'...dunque, passai lì la mia giovinezza, presso una famiglia tranquilla e amante dell'ordine: i mobili erano lucidi come specchi, i pavimenti puliti, e linde tendine si cambiavano molto spesso alle finestre.'
'Con quanta precisione racconti' disse la scopa ammirata. 'Si indovina subito che sei una donna di casa. A sentire le tue parole sembra di respirare una fresca aria di pulizia.'
'Già! E' proprio così' assentì la secchia, e quasi per confermare le sue parole fece un balzo, che la mandò a finire per terra.
Il vaso di argilla continuò la narrazione e la fine fu pari all'inizio.
I piatti per la gioia si misero a tintinnare, e la scopa, dopo essersi procurata qualche foglia di prezzemolo, lo inghirlandò. Sapeva che con ciò avrebbe fatto dispetto agli altri, mentre così pensava fra sé: se oggi lo inghirlando io, domani farà altrettanto lui a me!
'Abbiamo una matta voglia di ballare!' esclamarono le molle da fuoco e infatti si misero a danzare allegramente. Ma caspita, come alzavano in alto le gambe! La fodera della vecchia poltrona, rincantucciata lì, nell'oscuro angolo, spalancò talmente gli occhi alla loro vista, che finì per scucirsi tutta.
'Ci meritiamo anche noi la ghirlanda?' chiesero le molle. E se la meritarono infatti.
'Che gentaglia!' pensarono i fiammiferi.
Venne ora la volta della teiera, che avrebbe dovuto prodursi in una canzone, ma si scusò di non poterlo fare, adducendo come pretesto un forte raffreddore; anzi soggiunse che per poter cantare era necessario che fosse in stato di ebollizione. In verità amava darsi arie di grandezza, poiché, detto in confidenza, avrebbe preferito esibirsi nella sala da pranzo, in presenza dei signori.
Sul davanzale della finestra era posata una vecchia penna, di cui la domestica faceva talvolta uso per scrivere. Non aveva nulla di particolare, salvo che era stata troppo immersa nell'inchiostro, cosa di cui andava molto fiera.
'Se la teiera non desidera cantare' disse 'lasciatela in pace. Nella gabbia, là fuori, c'è un usignolo, che ne potrà fare le veci; è vero che non è molto istruito, ma per questa sera glielo possiamo perdonare!'. 'Trovo che sia una cosa sconveniente' intervenne a questo punto il bricco da tè, che fungeva da cantante di cucina, ed era fratellastro della teiera. 'Sta male ascoltare un uccello straniero! E' mancanza di ogni senso di patriottismo! Invito la borsa da spesa a esporre il suo autorevole giudizio in merito!'
'Sono proprio sdegnata" disse la sporta 'quanto nessuno se lo può immaginare. Vi sembra un modo ragionevole questo di passare la serata? Non sarebbe meglio mettere una buona volta in ordine la casa? Io organizzerei tutto, e ognuno si sentirebbe al posto che gli spetta.'
'Ma lasciaci fare un po' di chiasso!' gridarono allora gli altri in coro.
All'improvviso si aprì la porta e la domestica entrò. Tutti ammutolirono e non si udì più una sola sillaba: ma non c'era un recipiente che non fosse conscio della propria importanza e dignità: 'Oh se avessi voluto' pensava ognuno 'che allegra serata avremmo potuto passare!'
La domestica prese i fiammiferi e accese il fuoco: mio Dio, come crepitavano e quante scintille mandavano fuori!
'Ecco, ora ognuno avrà la certezza che noi siamo veramente i più importanti' pensarono. 'Basta vedere la nostra luce e il nostro splendore!'
Ma eccoli già belli e bruciati."
"E' stata proprio una splendida fiaba!" disse la regina. "Mi sembrava di trovarmi addirittura in quella cucina, tra i fiammiferi e gli altri arnesi: siamo disposti a darti nostra figlia in moglie."
"Sicuro" confermò il re "l'avrai lunedì" E gli dava già del tu, come si conviene a un futuro membro di famiglia.
Fissato il giorno delle nozze, la sera precedente tutta la città venne illuminata a festa. Panini dolci e ciambelle furono distribuiti alla popolazione, mentre i monelli affollavano le strade, gridando a squarciagola: "evviva!" e fischiando allegramente.
"Anch'io devo recare il mio contributo ai festeggiamenti" pensò il figlio del mercante. Comprerò razzi, petardi, e ogni sorta di fuochi d'artificio. Mise tutto nel suo baule e s'innalzò con esso in aria.
Puffete! Una volta in alto i petardi esplosero con grande detonazione. I turchi all'improvviso rumore sobbalzarono, facendo volare in alto perfino le loro pantofole. Non avevano mai visto simili prodigi celesti,e perciò finirono per convincersi che fosse proprio il dio dei turchi a sposare la loro principessa.
Dopo che il figlio del mercante si fu un'altra volta calato col suo baule nel bosco, pensò di recarsi in città, per sentire che impressione avessero fatto sulla gente tutti quei fuochi e le detonazioni. Del resto la sua era una naturale curiosità. Ognuno gliela raccontò a modo suo, ma certo l'impressione generale era stata ottima.
"Ho visto il dio dei turchi in persona!" disse uno. "I suoi occhi luccicavano come stelle e la sua lunga barba ondeggiava come l'acqua del mare."
"Volava tutto avvolto in un manto infocato" riferì un altro. "E leggiadri volti d'angelo spuntavano tra le pieghe."
Il giovane sentiva con orgoglio questi racconti veramente prodigiosi ed era lieto che all'indomani si celebrassero le sue nozze.
Fece allora ritorno al bosco per riprendersi il suo baule, ma dove mai era andato a finire?
Una scintilla dei fuochi artificiali, cadendovi sopra, lo aveva tutto incendiato, e del magico baule rimase appena un mucchio informe di cenere. Il nostro giovane non poteva più volare, non poteva raggiungere la sposa che lo attendeva.
Per tutto un giorno intero lei stette invano ad aspettarlo, sopra la torre del suo castello. E ancor oggi lo aspetta, mentre egli vaga per il mondo e racconta fiabe, ma non così divertenti come quella dei fiammiferi.

martedì 20 novembre 2012

Ligeia - Edgar Allan Poe


Per quanto frughi entro la mia anima non riesco a ricordare come, quando, e dove precisamente io abbia conosciuto per la prima volta Ligeia. Da allora molti anni sono trascorsi, e la mia memoria si è affievolita attraverso un lungo soffrire. O forse io non so rammentare ora questi particolari, perché in verità il carattere della mia adorata, il suo raro sapere, la sua bellezza singolare e così calma al tempo stesso, l'eloquenza eccitante, inebriante della sua sommessa voce musicale, s'insinuarono nel mio cuore per gradi così furtivamente e al tempo stesso così inesorabilmente progressivi che forse io mai li avvertii e li compresi del tutto. Credo tuttavia di averla incontrata per la prima volta e più di frequente in qualche grande, antica, decadente città presso le rive del Reno. Della sua famiglia devo certamente aver inteso parlare. Non v'è dubbio che essa risalga a un'epoca remotissima. Ligeia! Ligeia! Sprofondato in studi di una natura più che altro adatta a soffocare le impressioni del mondo esterno, è con questo dolce nome soltanto, col nome di Ligeia, che io riesco a riportare davanti agli occhi della mia fantasia l'immagine di colei che non è più. E proprio ora, mentre scrivo, subitamente mi colpisce la constatazione che io non ho mai saputo il casato di colei che mi fu amica e promessa sposa, e che divenne la compagna dei miei studi, e infine la moglie del mio cuore. Fu forse una sfida scherzosa da parte di Ligeia? O forse fu una prova con cui ella volle saggiare l'intensità del mio affetto, ch'io non avessi a porle alcuna domanda su questo punto? O forse fu soltanto un mio capriccio, un'offerta pazzamente romantica al santuario della più appassionata devozione? Ricordo solo vagamente il fatto in sé, quale meraviglia dunque ch'io abbia totalmente scordate le circostanze che l'originarono o lo seguirono? E se in verità quello spirito che si chiama Avventura,  se mai l'esangue Ashtofet dalle ali di nebbia dell'idolatra Egitto presiedette, come si narra, ai matrimoni sfortunati, allora certissimamente la lugubre dea dovette presiedere al mio.
Vi è però un argomento caro sul quale la mia memoria non ha esitazioni. E' la persona di Ligeia. Era alta di statura, piuttosto esile, e negli ultimi tempi di sua vita persino emaciata. Invano tenterei di descrivere la maestà, la tranquilla calma del suo portamento, o la inafferrabile leggerezza ed elasticità del suo passo. Ella veniva e si allontanava come un'ombra. Mai riuscii ad accorgermi del suo ingresso nel mio studio segreto se non per la cara musica della sua sommessa dolce voce, mentre mi posava sulla spalla la sua mano marmorea. Per bellezza il suo volto non fu mai eguagliato da quello di donna alcuna. Era la radiosità di un sogno d'oppio, un'aerea spirituale visione più trasumanamente divina delle fantasie che aleggiavano intorno alle anime sonnecchianti delle figliuole di Delo. Eppure i suoi tratti non avevano quell'impronta regolare che ci hanno falsamente insegnato ad adorare nelle opere classiche dei pagani. "Non esiste bellezza squisita", dice Bacone, signore di Verulamio, parlando con esattezza di tutte le forme e genera di bellezza, "senza una qualche stranezza di proporzioni". Tuttavia, pur vedendo che i lineamenti di Ligeia non avevano una regolarità classica, pur notando che la sua grazia era invero "squisita", e sentendo che questa sua grazia era profondamente pervasa di "stranezza", tuttavia ho cercato invano di scoprire la irregolarità e di fissare la mia concezione personale dello "strano". Studiavo il contorno dell'alta e pallida fronte: era impeccabile, per quanto fredda sia questa parola applicata a una maestà così divina! La carnagione rivaleggiava col più puro avorio; dal dolce rigonfiamento della regione sopra le tempie emanava un'impressione di comando e di riposo a un tempo; e quelle sue trecce, di un nero corvino, lucenti, lussureggianti, arricciantisi in buccoli naturali, che metteva in risalto tutta la piena vigoria dell'epiteto omerico "giacinteo"! Osservavo il delicato profilo del suo naso, ma in nessun luogo se non negli aggraziati medaglioni ebraici avevo contemplato una simile perfezione. Esso aveva la medesima opulenta levigatezza di superficie, la medesima appena percettibile tendenza all'aquilino, le stesse armoniosamente curve narici testimonianti del suo libero spirito. Osservavo la dolce bocca. Qui era veramente il trionfo di tutte le cose celesti: lo splendido contorno del breve labbro superiore, il tenero voluttuoso sonnecchiare di quello inferiore, le fossette che ridevano, il colore che parlava, i denti che rifrangevano  con una quasi sorprendente luminosità ogni raggio della celeste luce che cadeva su di loro nel suo sereno e placido, e tuttavia più esaltante e radioso di tutti i sorrisi. Scrutavo la forma del mento, e anche qui trovavo la serena ampiezza spirituale dei greci, il profilo che il dio Apollo rivelò soltanto in sogno a Cleomene, il figlio dell'Ateniese, e infine mi perdevo negli immensi occhi di Ligeia.
Per quegli occhi non esistono modelli nella remota antichità. Potrebbe anche darsi che negli occhi della mia amata si nascondesse il segreto cui allude il signor di Verulamio. Essi erano, devo credere, assai più grandi di quanto non siano solitamente gli occhi della nostra razza. Erano persino più pieni che non i pienissimi delle gazzelle della tribù che vaga nella valle di Nurjahad.  Tuttavia era soltanto a intervalli, nei momenti cioè di intensa emozione, che questo tratto caratteristico diveniva più spiccato in Ligeia. E in quei momenti la sua bellezza appariva (così almeno sembrava forse alla mia accesa fantasia) simile alla bellezza delle favolose Urì dei Turcomanni. L'ombreggiatura delle orbite era di un nero intenso, e su di esse si allungavano folte ciglia di color giaietto. Le sopracciglia, lievemente irregolari, erano dello stesso colore. La "stranezza", però, che io trovavo nei suoi occhi, era di una natura diversa dalla forma, o dal colore, o dalle luminosità dei tratti, e deve essere in definitiva riferita all'espressione. Ah, parola priva di significato! Dietro la cui vasta distesa di mero suono noi delimitiamo la nostra ignoranza di tanta parte del mondo spirituale. L'espressione degli occhi di Ligeia! Per quante lunghe ore io ho meditato su di essa! Quanto ho cercato durante tutta una notte di mezza estate di scandagliarla! Che cos'era quel qualcosa di più profondo del pozzo di Democrito che si nascondeva entro le pupille della mia amata? Che cos'era? Una curiosità ardente, appassionata, di scoprirlo si impadronì di me! Quegli occhi! Quelle grandi, quelle splendenti, quelle divine orbite! Esse erano divenute per me le stelle gemelle di Leda, e io per esse il più devoto degli astrologi.
Non esiste punto alcuno, tra le molte incomprensibili anomalie della scienza della mente, più emozionante ed eccitante del fatto (mai, ch'io sappia, notato nelle scuole) che, nei nostri sforzi per richiamare alla memoria qualcosa da molto dimenticato, spesso ci troviamo proprio sull'orlo stesso del ricordo, senza tuttavia essere in grado, in definitiva, di ricordare. Così quante volte, nel mio intenso studio degli occhi di Ligeia, ho sentito approssimarsi la comprensione piena della loro espressione, l'ho sentita approssimarsi senza che per altro divenisse completamente mia, per poi al fine sparire del tutto? E (strano, stranissimo di tutti i misteri!) trovavo, nei più comuni oggetti dell'universo, un cerchio di analogie a quell'espressione. Intendo dire che successivamente al tempo in cui la bellezza di Ligeia penetrò entro il mio spirito, dimorandovi poi come in un santuario, io traevo, dalle molte esistenze del mondo materiale, un sentimento che sempre avvertivo risvegliato in me dalle sue grandi luminose orbite. E tuttavia non sapevo mai come definire questo sentimento, né come analizzarlo, e neppure come valutarlo con sicurezza. Lo coglievo, lasciatemelo ripetere, a volte nella contemplazione di una vigna in rigogliosa crescita, o nella vista di una falena, oppure di una farfalla, di una crisalide, di un fluire di acqua corrente. L'ho avvertita nell'oceano, e nella caduta di  una meteora. L'ho sorpresa negli sguardi di gente vecchissima, e vi sono una o due stelle in cielo (una soprattutto, una stella di sesta grandezza, doppia e mutevole, che si trova presso la grande stella della Lira) che da me osservate al telescopio mi hanno reso consapevole di questa sensazione. Ne sono stato invaso da alcuni suoni di strumenti a corda, e a volte dai brani di alcuni libri. Tra innumerevoli altri esempi ricordo precisamente alcune righe nelle quali mi sono imbattuto durante la lettura di un volume di Joseph Glanvill, le quali (forse soltanto per la loro stranezza: chi può dirlo?) sempre mi ispirarono questo sentimento: "E la volontà consiste in ciò che non muore. Chi conosce i misteri della volontà, e il suo vigore? Perché Iddio non è che un immenso volere che pervade tutte le cose con la natura del suo intendimento. L'uomo non si arrende agli angeli, né completamente alla morte, se non attraverso la fralezza del suo debole volere".
Un lungo trascorrere di anni e di meditazioni successive mi hanno consentito infatti di rintracciare un lontano rapporto tra questo brano del moralista anglosassone e una parte del carattere di Ligeia. Una intensità di pensiero, di azione, di eloquio, era forse in lei il risultato, o per lo meno un indice, di quella volitività titanica che durante la nostra lunga intimità mai aveva dato altra e più immediata testimonianza della propria esistenza. Di tutte le donne che io ho conosciute, Ligeia, l'esteriormente calma, la sempre serena Ligeia, era invece tanto più violentemente dilaniata dai turbinosi avvoltoi della cupa passione. E di questa passione io non ero in grado di misurare l'abisso se non per la sovrannaturale dilatazione di quegli occhi che mi rapivano e mi sgomentavano ad un tempo, per la melodia, la modulazione, la precisione e la placidità quasi magiche della sua voce bassissima, e per la selvaggia energia (resa doppiamente efficace dal contrasto col modo con cui erano espresse) dalle indomite parole che ella solitamente proferiva.
Ho già accennato al sapere di Ligeia: esso era immenso, quale mai ho veduto in donna alcuna. Era versatissima nelle lingue classiche, e sin dove si estendeva la mia conoscenza personale nei riguardi dei moderni idiomi europei io non l'ho mai colta in fallo. Del resto quando mai ho colto in fallo Ligeia su un argomento qualsiasi della più ammirata, semplicemente perché la più astrusa, della tanto vantata erudizione delle accademie? Con quanto singolare conturbante vigore questo lato della natura di mia moglie ha attratto la mia attenzione, in quest'ultimo periodo di tempo soprattutto! Ho detto che il suo sapere era quale io mai avevo conosciuto in donna alcuna; ma dove esiste l'uomo che abbia esplorato e con successo tutti gli sconfinati campi delle scienze morali, fisiche, matematiche? Io a quel tempo non vedevo ciò che ora invece distinguo chiaramente, che cioè le cognizioni di Ligeia erano enormi, erano stupefacenti, tuttavia ero abbastanza conscio della sua infinita supremazia per rimettermi con fiducia infantile alla sua guida attraverso il caotico mondo della ricerca metafisica della quale mi ero intensamente occupato durante i primi anni del nostro matrimonio. Con quale senso di trionfo, con quale inebriante gioia, con quale sensazione eterea di speranza, sentivo, mentre ella si chinava su di me in studi rari e poco noti, quel meraviglioso panorama allargarsi dinanzi a me per lenti gradi; come sentivo che attraverso quel lungo, splendido sentiero non ancora percorso da alcuno io avrei potuto finalmente muovere innanzi verso la meta di una saggezza troppo divinamente preziosa per non essere proibita!
Quanto doloroso deve dunque essere stato l'affanno con cui, alcuni anni più tardi, io vidi le mie tanto attese speranze mettere le ali e fuggire! Senza Ligeia ero come un bambino che si aggira a tastoni la notte. La sua presenza, le sue letture semplicemente, rendevano vividamente luminosi i molteplici misteri del trascendentalismo nel quale eravamo immersi. Senza il radioso splendore dei suoi occhi, le lettere, fiammee e dorate, divenivano più opache del piombo saturnio. Ed ecco che quegli occhi brillano sempre meno di frequente sulle pagine da me compulsate. Ligeia si ammalò. I suoi occhi smarriti lucevano di un troppo... troppo glorioso fulgore; le pallide dita di lei assunsero la translucida cereità della tomba, le vene azzurrine della sua eccelsa fronte si inturgidivano e si afflosciavano d'impeto con l'avvicendarsi della finanche più lieve emozione. Compresi che ella sarebbe morta, e lottai disperatamente in ispirito con il funebre Azrael. Ma il dibattersi appassionato di mia moglie era con mio stupore ancor più energico del mio stesso. Molti lati della sua natura austera mi avevano fatto supporre che per lei la morte sarebbe giunta senza i suoi consueti terrori; ma non fu così. Le parole sono impotenti a rendere con esattezza la tenacia di resistenza con cui ella lottò con l'Ombra. Io gemevo d'angoscia a quella vista miserevole. Avrei voluto calmarla, farla ragionare; ma, difronte all'intensità del suo disperato desiderio di vita, di vita, di vita soltanto, conforto e ragione erano pari alla più forsennata delle follie. Nondimeno soltanto in ultimo, tra gli spasimi e i contorcimenti convulsi del suo ardente spirito, la serenità esteriore del suo comportamento si scosse. La sua voce si era fatta più dolce, più sommessa, tuttavia io non desideravo soffermarmi sullo sconnesso significato delle sue parole proferite con tanta placidità. Il mio cervello vacillava mentre ascoltavo rapito una melodia più che terrena, e concetti e aspirazioni che esseri mortali mai avevano conosciuti prima.
Ch'ella mi amasse non avrei dovuto dubitarlo, e mi sarebbe stato facile accorgermi che in un animo quale il suo l'amore avrebbe regnato con una passione non comune. Ma soltanto nella morte compresi appieno la forza del suo affetto. Per lunghe ore, tenendomi la mano, ella mi riversò i traboccamenti di un cuore la cui devozione più che appassionata sfiorava l'idolatria. Cosa avevo fatto per meritare di essere benedetto da così sublimi confessioni? Cosa avevo fatto per essere maledetto con la privazione della mia adorata proprio nell'ora in cui ella si rivelava a me? Ma non reggo al pensiero di dovermi dilungare su questo argomento. Lasciatemi dire soltanto che nell'abbandono più che femminile di Ligeia a un amore ahimè del tutto immeritato, del tutto indegnamente ricevuto, io riconobbi infine il principio del suo agognare con così disperata energia a quella vita che ora stava sfuggendo da lei tanto rapidamente. E' questo disperato agognare, è questa appassionata veemenza di desiderio di vita, di vita soltanto, che io non ho potere per raffigurare, non linguaggio capace di esprimere.
Al colmo della notte in cui ella mi lasciò, mi chiamò perentoriamente al suo capezzale e mi fece ripetere alcuni versi da lei composti non molti giorni prima. Le obbedii.
Eccoli:


Guarda! E' una notte sfarzosa
di questi ultimi anni solitari!
Una coorte angelica, alata, avvolta
in veli, sommersa in lacrime,
siede in un teatro a contemplare
uno spettacolo di speranze e di timori,
mentre l'orchestra suona capricciosamente
la musica delle sfere.

Mimi, foggiati a sembianza della Deità eccelsa,
brontolano e mormorano sommessi,
e qua e là volteggiano:
semplici marionette sono coloro che vanno e vengono
al comando di immense cose informi,
che spostano la scena innanzi e indietro,
sbattendo dalle loro ali di condor,
invisibile Dolore!

Quale variopinto dramma! Oh, rassicurati,
non sarà dimenticato!
Né lo sarà il suo fantasma inseguito in eterno
da una folla che non saprà afferrarlo
entro un cerchio eternamente ritornante
al medesimo identico punto,
e molto è Pazzia, e molto è Peccato,
e Orrore è l'anima della trama.

Ma guarda, tra la folla dei mimi,
una strisciante forma s'insinua!
Una cosa rossosangue che esce torcendosi
fuori dalla scenica solitudine!
Si torce! Si torce! Con mortali spasimi
i mimi divengono suo cibo,
e i serafini singhiozzano alla vista di zanne vermicanti
imbevute di umano cruore.

Spente, spente sono le luci, spente tutte!
E su ciascuna rabbrividente forma
il sipario, lenzuolo funebre,
scende col fragore di un uragano,
e gli angeli, pallidi, esangui,
innalzandosi, svelandosi, affermano
che l'opera è la tragedia "L'Uomo",
che il suo eroe è il Conquistatore Verme.

"O Dio!", quasi urlò Ligeia, balzando in piedi e tendendo alte le braccia in un gesto spasmodico, mentre io terminavo di leggerle questi versi. "O Dio! O Divino Padre! Devono queste cose sempre inesorabilmente essere? Non può il Conquistatore essere almeno una volta conquiso? Non siamo noi parte e particelle di Te? Chi, chi conosce i misteri della volontà, e il suo vigore? L'uomo non si arrende agli angeli, né completamente alla morte, se non attraverso la fralezza del suo debole volere".
Poi, come se quello scoppio di commozione l'avesse annientata, lasciò ricadere le sue bianche braccia e si riadagiò solennemente sul suo letto di morte. E mentre ella esalava l'ultimo respiro, uscì dalle sue labbra, misto ai suoi supremi aneliti, un mormorio sommesso. Accostai il mio orecchio alla sua bocca e vi colsi ancora una volta le parole finali del passo di Glanvill: L'uomo non si arrende agli angeli, né completamente alla morte, se non attraverso la fralezza del suo debole volere.
Così Ligeia morì, e io, ridotto a un pugno di polvere calpestata dal dolore, non potei più sopportare la desolazione solitaria della mia dimora nella sfocata decadente città sulle sponde del Reno. Non mi mancava ciò che il mondo chiama ricchezza. Ligeia mi aveva portato in dote molto di più di quanto solitamente tocca in sorte ai mortali. perciò in capo ad alcuni mesi, dopo aver vagabondato stancamente e senza meta, acquistai e riattai un'abbazia di cui non farò il nome, in una delle contrade più selvagge e meno frequentate della bella Inghilterra. La tetraggine e la squallida grandiosità della costruzione, l'aspetto pressoché incolto della tenuta, le malinconiche e antichissime memorie connesse a entrambe, avevano molta affinità con i sentimenti di totale abbandono che mi avevano spinto in quella regione insocievole e remota del paese. Mentre però all'esterno l'abbazia, tutta avvolta nel suo verzicante decadimento, subì pochissimi mutamenti, io mi sbizzarii all'interno con una perversità fanciullesca, e fors'anco con una vaga speranza di alleviare le mie sofferenze, in una sfoggio di sfarzo più che regale. Io infatti mi ero inebriato sin dalla fanciullezza di simili follie e ora queste tornavano ad assillarmi, quasi che il dolore mi avesse portato a un prematuro vaneggiamento senile. Ahimè, comprendo come si potesse persino avvertire un principio di pazzia nei drappeggiamenti sgargianti, fantastici, nelle monumentali sculture egizie, negli stipiti, nella mobilia di un gusto audacissimo, nei disegni manicomiali dei tappeti d'oro trapunto! I lacci dell'oppio mi avevano avvinto e ridotto in servitù, e le mie fatiche e i miei studi si erano colorati del riflesso dei miei sogni. Non mi soffermerò però a narrare particolareggiatamente di queste assurdità. Lasciate che vi parli soltanto di quell'unica camera, per sempre maledetta, dove in un momento di alienazione mentale io portai all'altare come mia sposa, a succedere alla non dimenticata Ligeia, la biondochiomata e occhiazzurrina lady Rowena Trevanion di Tremaine.
Non vi è parte sia pur minima dell'architettura e della decorazione di quella camera nuziale che io non abbia ben visibile davanti agli occhi. Dov'erano gli spiriti dell'altera famiglia della sposa allorché per pura sete d'oro essi consentirono che una fanciulla, una figlia tanto amata, varcasse la soglia di una stanza così ornata? Ho detto che ricordo minutamente tutti i particolari di quella stanza (per quanto io possieda pochissima memoria su argomenti di grave momento), eppure non vi era un sistema, un ordine purchessia, in quello sfoggio fantastico, che potesse avere una presa sulla memoria. La stanza era posta entro un'alta torre dell'abbazia merlata, era di forma pentagonale, e assai vasta. Tutta la faccia meridionale del pentagono  era occupata da un'unica finestra, un'immensa lastra intatta di cristallo veneziano, una singola invetriata, tinteggiata di una sfumatura plumbea, cosicché i raggi sia del sole che della luna penetrandovi attraverso cadevano sugli oggetti contenuti nell'interno con un lividore spettrale. Sulla parte superiore di questa sterminata finestra si stendeva l'intrico di una foltissima vite vergine arrampicantesi sin lì lungo le massicce mura della torre. Il soffitto, di quercia tetra, era altissimo, a volta, elaboratamente ornato dei più strani e più grotteschi esemplari di un capriccio semigotico, semidruidico. Dal ricettacolo più centrale di questa malinconica volta pendeva, mediante un'unica catena d'oro a lunghi anelli, un immenso bruciaprofumi del medesimo metallo, di modello saraceno e tutto traforato in modo che ne uscissero e ne entrassero torcendosi come se fossero impregnate di una vitalità serpigna lingue di fuoco multicolore in successione continua.
Sparsi qua e là in vari punti vi erano alcuni divani e candelabri dorati di foggia orientale, e vi era pure il talamo, il talamo nuziale, di fattura indiana, basso, scolpito in solido ebano e ricoperto di un baldacchino color del drappo funebre. In ciascun angolo della camera troneggiavano giganteschi sarcofaghi di granito nero tolti alle tombe dei re nella lontana Luxor, con i loro antichi coperchi adorni di immemoriali sculture. Ma, ahimè! nei panneggiamenti della stanza consisteva soprattutto la più fantastica delle mie follie. Le immense pareti, di altezza gigantesca, persino sproporzionate, erano ricoperte da cima a fondo di una tappezzeria pesante, massiccia, ricadente in vaste pieghe, di una stoffa che ricorreva uguale come tappeto sul pavimento, come coperta dei divani e del letto d'ebano, come baldacchino del talamo, e che si ripeteva in ampie volute nei cortinaggi che ombreggiavano parzialmente la finestra. Era un tessuto sfarzosamente tramato d'oro. Qua e là, a intervalli regolari, era tutto punteggiato di figure arabescate, larghe circa trenta centimetri, e intessute nella stoffa di disegni del più intenso nero. Queste figure però rivelavano il vero aspetto dell'arabesco solo se osservate da un unico punto. Grazie a un artificio ormai comune, e del resto noto in periodi anche remoti dell'antichità, esse erano state trapunte in modo da apparire mutevoli alla vista. Per chi entrasse nella stanza potevano sembrare semplici mostruosità, a avanzando ulteriormente, questa apparenza gradatamente svaniva, e a ogni passo che muoveva innanzi il visitatore si vedeva circondato da una successione interminabile di quelle forme spettrali che appartengono alla superstizione dei normanni o sorgono nei colpevoli sonni dei monaci. Questo effetto fantasmagorico era reso ancora più intenso dall'introduzione di una forte continua corrente di vento artificiale spirante dietro i panneggi e che dava al tutto un'animazione paurosa.
In tale atmosfera, in una camera nuziale come quella, io trascorsi con la signora di Tremaine le empie ore del primo mese del nostro matrimonio. Le trascorsi con non poca inquietudine. Che mia moglie paventasse l'irosa ombrosità del mio carattere, che tentasse i scansarmi e mi amasse assai poco, questo non potevo fare a meno di notarlo, ma anziché dispetto il suo timore di me mi procurava piacere. Io la odiavo con un odio più demoniaco che umano. Il mio ricordo rivolava (oh! con quale intensità di rimpianto!) a Ligeia, l'amatissima, l'augusta, l'incomparabile, la sepolta. Mi rapivo nel ricordo della sua purezza, del suo sapere, della sua eccelsa eterea natura, del suo appassionato idolatra amore. Allora veramente il mio spirito bruciò tutto e completamente libero di tutti i fuochi di lei, e oltre. Nell'eccitazione dei miei sogni oppiati (poiché ero ormai abitualmente incatenato ai ceppi della droga) io invocavo forte il suo nome nel silenzio della notte, oppure durante il giorno tra gli ombrosi recessi delle valli, quasiché, nella disperata angoscia, nell'austera passione, nel divorante ardore del mio desiderio per la donna scomparsa io potessi ricondurla sul sentiero che ella aveva abbandonato (ah, era mai possibile che fosse per sempre?) su questa terra.
All'inizio del secondo mese di matrimonio, lady Rowena fu colta da una malattia improvvisa dalla quale si riebbe lentamente. La febbre che la consumava rendeva inquiete le sue notti, e nel suo stato agitato di dormiveglia parlava di rumori e di movimenti dentro e fuori della stanza della torre che io conclusi non potessero avere origine se non nello smarrimento del suo intelletto, o forse negli influssi fantasmagorici della camera stessa. Alla fine entrò in convalescenza, e ben presto guarì. Ma non trascorse molto che un secondo male ancora più violento la fece ricadere su un letto di sofferenze, e da questa crisi la sua costituzione che era sempre stata debole non si riebbe mai del tutto. I suoi mali erano in quel periodo di una natura allarmante e di una frequenza ancora più allarmante, e sfidavano sia la dottrina sia i tentativi dei suoi medici. Con l'aumentare di questa malattia cronica che si era con ogni apparenza talmente radicata nel suo fisico da non poter essere debellata con mezzi umani, io non potei non notare un analogo aumento del suo stato d'irritazione nervosa e della sua eccitabilità e predisposizione alla paura per i motivi più comuni. Riprese a parlare, adesso con più frequenza e più pertinacia, dei rumori, lievi rumori, e dei movimenti inconsueti tra i panneggi, di cui già aveva fatto cenno in precedenza.
Una sera, sul finire di settembre, ella sottopose con più energia del solito alla mia attenzione questo argomento conturbante. Si era appena svegliata da un sonno agitato, mentre io ero rimasta a osservare, con un sentimento misto di angoscia e di vago terrore, le smorfie dolorose del suo volto emaciato. Sedevo a fianco del suo letto d'ebano, su un divano indiano. Ella si levò parzialmente a sedere, e parlò in un sussurro sommesso, ansioso, di rumori che aveva allora uditi, ma che io non potevo udire; di movimenti che ella aveva allora veduti, ma che io non riuscivo a scorgere. Il vento stormiva senza posa dietro i cortinaggi e io desideravo dimostrarle (cosa che, debbo confessarlo, non riuscivo del tutto a credere) che quei sospiri pressoché inarticolati, quelle lievissime variazioni delle figure sulla parete non erano che il risultato naturale della solita corrente d'aria circolante in perpetuo. Ma il pallore mortale che le aveva ricoperto il volto mi aveva dimostrato che i miei sforzi per rassicurarla sarebbero stati inutili. Sembrava fosse sul punto di svenire e non vi era alcun domestico a portata di voce. Mi rammentai che in un angolo della stanza era stato posato un boccale di vino leggero ordinatole dai suoi medici, e mi diressi rapidamente da quella parte, ma mentre avanzavo sotto la luce dei bruciaprofumi la mia attenzione fu attratta da due fatti che mi lasciarono sbalordito e perplesso. Avevo avuto l'impressione che un oggetto palpabile sebbene invisibile mi fosse passato lievemente accanto, e notai che sul tappeto dorato, proprio al centro del vivido cerchio di luce gettato dal bruciaprofumi, si allungava un'ombra vaga, indefinita, di aspetto angelico, quale potrebbe essere immaginata l'ombra di un'ombra. Il mio cervello però era annebbiato da una dose eccessiva di oppio, e non feci molto caso a queste mie impressioni, né vi accennai con Rowena. Presi il vino, riattraversai la stanza, riempii un calice che tesi alle labbra esangui della donna semisvenuta. Rowena si era però in parte riavuta e strinse da sola la coppa tra le mani, mentre io ricadevo a sedere su un vicino divano, gli occhi fissi sulla sua persona. Fu allora che avvertii distintamente un lieve rumore di passi sul tappeto e accanto al letto, e un attimo dopo, mentre Rowena era in atto di portare il vino alle labbra, vidi, o forse sognai di aver veduto, cadere entro la coppa, come da un'invisibile sorgente zampillante nell'atmosfera stessa della stanza, tre o forse quattro grosse gocce di un fluido luminoso di color rubino. Se questo io vidi, non lo vide certo Rowena. Ella trangugiò il vino senza esitare e io mi astenni dal parlarle di un fatto che, dopo tutto, riflettevo, non doveva essere stato che il frutto della mia immaginazione sovreccitata, e resa morbosamente fertile dal terrore della donna, dall'oppio e dall'ora.
Tuttavia non mi fu possibile negare ai miei sensi che subito dopo la caduta delle gocce color rubino un rapido peggioramento sopravvenne nella malattia di mia moglie, tanto che, in capo a tre notti, le mani delle sue ancelle già la preparavano per la tomba, e la quarta notte io sedevo solo, accanto al suo corpo avvolto nel sudario, in quella spettrale stanza che l'aveva accolta come mia sposa. Visioni fantastiche, generate dall'oppio, aleggiavano come ombre intorno a me. Io fissavo con sguardo inquieto i sarcofaghi agli angoli della stanza, le trasmutanti figure dei panneggi, i contorcimenti delle multicolori lingue di fiamma nel bruciaprofumi pendente sopra il mio capo. Rammentando le circostanze di poche notti innanzi, i miei occhi caddero sul punto circoscritto dalla macchia di luce del turibolo dove io avevo notate le vaghe tracce dell'ombra. Ma questa non vi era più, e respirando più liberamente volsi il mio sguardo alla pallida rigida figura sul letto. Allora mi invasero mille ricordi di Ligeia, e il mio cuore si gonfiò con la turbolenta impetuosità di una piena di tutto quell'indicibile dolore con cui io avevo contemplato lei così avvolta entro un lenzuolo funebre. La notte trascolorò, e sempre con l'animo pieno di amari pensieri al ricordo dell'unica sola e supremamente amata io rimasi a contemplare il corpo di Rowena.
Poteva essere stata la mezzanotte, forse fu prima, forse dopo, perché non avevo fatto caso al tempo, allorché un singhiozzo, sommesso, lieve, ma distintissimo, mi risvegliò bruscamente dal mio fantasticare. Ebbi l'impressione che provenisse dal letto d'ebano, dal  letto di morte. Rimasi in ascolto, in preda a un'agonia di terrore superstizioso: ma il suono si ripeté. Affissai lo sguardo, per poter scorgere nel cadavere un qualsiasi possibile movimento, ma non avvertii nemmeno il più lieve ondeggiare. E tuttavia non potevo essermi ingannato. Avevo udito il rumore, per quanto flebile, e la mia anima si era risvegliata entro di me. Risolutamente, ostinatamente, tenni fissa la mia attenzione sul cadavere. Trascorsero molti minuti prima che sopravvenisse una circostanza che potesse far luce sul mistero. Alla fine apparve evidente che una sfumatura di colore lievissima, debolissima, appena percettibile, ne aveva invermigliate le guance soffondendo anche le infossate venuzze delle palpebre. In preda a un orrore e a un terrore indicibili, a esprimere i quali il linguaggio degli uomini non ha forza bastante, sentii il mio cuore cessar di battere e le mie membra irrigidirsi nella posizione stessa in cui ero seduto. Ma alla fine un senso di dovere mi costrinse a riprendere possesso di me. Non potevo più dubitare che fossimo stati troppo precipitosi nei nostri preparativi, e che Rowena vivesse ancora. Occorreva far subito qualche tentativo immediato; ma la torre era completamente isolata dall'ala dell'abbazia occupata dai domestici. Non v'era nessuno a portata di voce. Non mi era possibile chiamarli in mio soccorso senza essere costretto a lasciare la camera per parecchi minuti, una cosa che non potevo arrischiarmi a fare. Lottai perciò da solo nel tentativo di richiamare lo spirito di Rowena ancora aleggiante nel suo corpo. Quasi subito mi avvidi che un nuovo peggioramento si era operato. Il colore era nuovamente scomparso sia dalle palpebre sia dalle guance, lasciandola più pallida ed esangue del marmo stesso; le labbra si raggrinzirono e si tesero nella paurosa espressione della morte; su tutta la superficie del suo corpo si sparse un madore freddo e repellente, e subito sopravvenne la consueta rigidità cadaverica. Ricaddi con un brivido sul divano da cui mi ero levato con tanto impeto, e le visioni diurne di Ligeia che già mi avevano ossessionato ripresero a presentarmisi più appassionatamente che mai.
Trascorse così un'ora, quando (era dunque possibile?) per la seconda volta mi accorsi di un rumore vago proveniente dal lato del letto. Stetti in ascolto, in preda a un orrore supremo. Il rumore si ripeté: era un sospiro. Accorsi verso il cadavere, e vidi, vidi nitidamente, un tremito agitarne le labbra. Un attimo dopo queste si dischiusero rivelando una lucente fila di denti perlacei. Nel mio petto lottava ora con il terrore che sino a quel momento vi aveva regnato sovrano uno stupore profondo. Sentivo che la vista mi vacillava, che la mia ragione barcollava, e soltanto con un violento sforzo su me stesso riuscii a impormi il compito che il dovere ancora una volta mi indicava. Ecco che dalla fronte, dalle guance e dalla gola irradiava ora un barlume di colore; un calore sensibile aveva pervaso tutto il corpo; persino il cuore pulsava debolmente. La donna viveva, e con raddoppiato ardore mi accinsi a ridarle i sensi. Le massaggiai e bagnai le tempie e le mani, e mi servii di tutto ciò che mi suggeriva l'esperienza unita a un non del tutto trascurabile sapere medico. Ma invano. Improvvisamente il colore disparve, le pulsazioni cessarono, le labbra ripresero un aspetto inerte, e subito dopo il corpo riacquistò la gelida freddezza, la sfumatura livida, la rigidità intensa, il profilo infossato, tutte insomma le disgustose caratteristiche di un cadavere già da alcuni giorni inumato.
Ed ecco che le visioni di Ligeia mi riassalirono, ed ecco che di nuovo (quale meraviglia che io rabbrividisca mentre scrivo) ecco che di nuovo dal lato del letto mi giunse alle orecchie un singhiozzo sommesso. Ma perché dovrei descrivere minutamente gli inspiegabili orrori di quella notte? Perché dovrei soffermarmi a ripetere come, quasi a ogni attimo, sin quasi al sorgere della grigia alba, questo spaventoso dramma di riviviscenza si ripetesse; come ogni terrificante ricaduta non fosse che uno sprofondamento in una morte più assoluta e apparentemente più irrevocabile; come ogni agonia assumesse l'aspetto di una lotta con qualche invisibile nemico; come a ciascuno di questi conati succedesse non so quale inspiegabile mutamento nell'aspetto fisico del cadavere? Lasciate che mi affretti alla conclusione.
La più gran parte di quella notte era trascorsa, e colei che era morta aveva riacquistato più e più volte parvenza di vita, e ogni volta con più vigore delle precedenti, benché si levasse da una dissoluzione a ogni stadio sempre più spaventosa, nei disperati e vani sforzi per combatterla a ogni nuovo tentativo di rinascita. Io avevo ormai da tempo cessato sia di lottare che di muovermi, ed ero rimasto a sedere immobile sul divano, preda smarrita di un turbine di emozioni violente, tra le quali la meno terribile, la meno divorante era forse un supremo arcano terrore. Il cadavere, ripeto, si muoveva, e adesso più energicamente delle altre volte. I colori della vita ne invermigliavano con inconsueta energia il volto, le membra si rilassarono, e, tranne che per le palpebre ancora pesantemente abbassate e per le acconciature e i panneggiamenti tombali che ancora davano alla figura un aspetto macabro, io avrei potuto immaginare che Rowena si fosse davvero liberata per sempre dei legami della Morte. Ma se io non potevo accettare del tutto questa realtà neppure in quel momento, non mi fu più possibile dubitare, allorché, levandosi dal letto, e vacillando con deboli passi, con occhi chiusi, con l'atteggiamento di chi è reso attonito da un sogno, la cosa avvolta nel sudario avanzò audacemente, tangibilmente, sin nel mezzo della stanza.
Io non tremai, non mi mossi, poiché una folla di pensieri indicibili suggeritimi dall'aspetto, dalla statura, dal portamento dell'immagine, pensieri che si accavallavano furiosamente nel mio cervello, mi aveva paralizzato, mi aveva impietrito. Non mi mossi; ma i miei occhi erano come inchiodati sull'apparizione. Nelle mie idee si era fatto un disordine forsennato, un tumulto che nulla avrebbe potuto placare. Poteva essere davvero la Rowena vivente colei che mi fissava? Che dico, poteva essere Rowena affatto, la biondochiomata, l'occhiazzurrina lady Rowena  Trevanion di Tremaine? Perché, perché dubitavo di questo? La benda legava strettamente la bocca; ma non poteva essere dunque la bocca della respirante signora di Tremaine? E le guance, rosee come nel meriggio della sua vita, sì, le guance potevano in verità essere le dolci guance della vivente dama di Tremaine. E il mento, punteggiato di fossette, come quando era sana, non poteva essere il suo? Ma era dunque cresciuta di statura dopo la malattia? Quale inspiegabile follia mi colse a quel pensiero? Un balzo e le fui ai piedi! Rifuggendo dal mio contatto ella lasciò cadere sciolti dal capo i drappi funebri in cui questo era stato avvolto, ed ecco uscire e agitarsi nella turbinante atmosfera della camera folte masse di lunghi e scarmigliati capelli; più nere, erano queste chiome, delle corvine ali della mezzanotte! Poi gli occhi della figura che mi stava dinanzi lentamente si apersero. "In questo almeno", urlai a gran voce, "mai... mai potrò ingannarmi... Ecco i grandi, ecco i neri, ecco i fulgidi occhi... del mio perduto amore... della mia donna... di lady Ligeia".

domenica 28 ottobre 2012

Senza parole - Konstantin D. Balmont



Campagna di Russia, c'è in te una solenne
ma tacita voce di doglie struggenti,
desio senza speme, silenzio perenne,
vertigini fredde, pianure fuggenti.

O vieni all'aurora sull'erta del prato!
Sul fiume si libra la bruma serena.
Nereggia la mole del bosco agghiacciato.
Al cuore fa male, al cuore fa pena.

Non tremano canne. Non frusciano piante.
Languore profondo. Silenzio assoluto.
Galoppano i campi distante distante.
Opprime le cose l'oblio sordo e muto.

Oh vieni al tramonto nei parchi notturni,
del gelido stagno nell'ombra serena.
Là gli alberi sono così taciturni,
e il cuore si strugge, si strugge di pena,

così come quando non viene esaudito
un suo desiderio o fannogli male,
e pur perdonando rimane ferito
a lungo piangendo l'inutile male.

mercoledì 24 ottobre 2012

Tur Alì e la principessa di Trebisonda - favola turca



La bellezza della principessa di Trebisonda, la potente città che si affacciava sul Mar Nero, era nota in tutte le terre.
Era un'amazzone eccezionale: tirava due archi insieme, a destra e a sinistra. Ogni suo colpo era micidiale. Nessuno poteva competere con lei.
Un giorno, suo padre decise di darla in moglie a un uomo di molto coraggio che fosse stato così abile da uccidere tre belve: il leone reale, un cammello selvaggio e un toro feroce. Già trentadue uomini si erano presentati a corte per il tentativo e trentadue teste pendevano dai torrioni del castello. Proprio questo era il destino di chi falliva la prova delle belve: essere decapitato.
Di passaggio da Trebisonda, Quanli Qoga, il valoroso principe della tribù degli Oguz, notò le teste appese al castello e ne ebbe tale paura che i pidocchi della sua testa caddero stecchiti ai suoi piedi.
"Se mio figlio vorrà - pensò tra sé - potrà provare a vincere le tre belve. Ha coraggio certamente, ma se non se la sente di venire qui, che si accontenti pure delle donne della nostra tribù".
Tornato dai suoi, Qanli Qoga, si recò dal figlio Tur Alì e gli parlò:
- Figlio mio, ho trovato la ragazza che potresti sposare, ma ci vuole tanto coraggio!
- Coraggio?
- Coraggio, solo tanto coraggio.
- Allora non mi resta che armare il cavallo e partire contro questo nemico. Vedrai se in battaglia so usare questo braccio e abbattere i nemici. Tornerò carico di schiavi e schiave.
- Cos'hai capito, figlio mio? Non ti chiedevo una prova siffatta. Il padre della fanciulla, il re di Trebisonda, la darà in sposa a chi avrà ucciso tre belve feroci. Chi fallisce la prova, è condannato alla decapitazione. Molte teste sono già appese al torrione del castello.
- Andrò, padre, non posso fare a meno di andare.
Qanli Qoga ebbe un tuffo al cuore e si pentì d'aver parlato al figlio della principessa di Trebisonda.
- Figlio mio, - gli disse - l'impresa è difficile: la ragazza è molto bella, ma il carnefice è pronto a mozzarti la testa. Pensaci bene e non dare questo dolore alla tua vecchia madre e a tuo padre dai capelli bianchi.
- Padre, rispose Tur Alì - non posso comportarmi da vile. Andrò a Trebisonda dalla principessa e lotterò con le belve feroci. Forse sarò fatto a pezzi da quelle, forse sarò io a metterle sotto i miei piedi. Ma voi non abbiate timore e state tranquilli!
Non c'era verso di convincere Tur Alì, perciò i genitori gli dissero:
- Vai e sii fortunato! Ti aspettiamo.
Tur Alì preparò ogni cosa, fece armare i suoi quaranta cavalieri e si avviò. Dopo sette giorni e sette notti di cammino, toccarono il confine col regno di Trebisonda. Al nuovo giorno entrarono in città e si recarono dal principe.
- Eccomi qui, pronto per la prova - disse Tur Alì.
- Da dove vieni? - gli domandò il principe.
- Vengo da lontano, dalla tribù degli Oguz di cui è signore mio padre, Qanli Qoga. Ho cavalcato sette giorni e sette notti per raggiungere Trebisonda. Voglio tua figlia in sposa. Che il dio Allah sia testimone!
- Sarai sottoposto alla prova, subito!
Tur Alì fu accompagnato al campo e destò la meraviglia di tutti, anche della principessa che lo osservava dal chiosco.
"E' meraviglioso questo cavaliere! - ella si disse - Sarebbe un peccato se morisse per colpa di quelle belve. Volesse Iddio convincere mio padre a darmi in sposa a lui senza la terribile prova!"
Fu portato il toro legato con una catena di ferro. Era un bestione immenso che scalpitava inferocito. Al solo vederlo i quaranta cavalieri di Tur Alì furono presi dalla disperazione e cominciarono a piangere. Ma il giovane li rincuorò:
- Perché vi disperate? Che il toro sia lasciato libero e si lanci contro di me!
Fu tolta la catena al toro. Il bestione allora puntò su Tur Alì, simile a una tempesta, ma il giovane non si spaventò e gli assestò un gran pugno sulla testa. Il toro barcollò e si inginocchiò sulle zampe posteriori, poi tornò alla carica. Tur Alì non cedette e a lungo lottò con quel mostro, finché lo vide stanco e con la schiuma alla bocca. Allora lo prese per la coda e lo scaraventò a terra: lo strangolò, lo scuoiò e ne portò la pelle al principe. Rimasero tutti a bocca aperta.
Si fece allora avanti il nipote del principe e disse:
- E' la volta del leone. La principessa non è ancora sposa dello straniero.
Fu fatto uscire il leone. Al vederlo i cavalli vomitarono sangue e i quaranta cavalieri di Tur Alì si misero a piangere, ma il giovane non aveva paura e disse:
- Perché vi disperate? Ho con me la fedele spada con la quale saprò farmi giustizia.
Il leone avanzò contro Tur Alì; era terribile, ma ne ebbe un tremendo fendente sulla fronte e la mascella fracassata. Poi il giovane lo sollevò e lo scagliò con forza sul campo. Il leone non si mosse più.
- Ti basta ciò che ho fatto? - domandò Tur Alì al principe - non potresti già darmi tua figlia in sposa?
- Date mia figlia a questo valoroso - sentenziò il principe.
- No, principe, - intervenne il nipote - resta che quest'uomo combatta contro il cammello. Se lo vincerà, avrà  tua figlia.
Anche il cammello fu portato nel campo. Questa volta Tur Alì se la vide brutta. Il forte animale lo inseguiva e lui gli passava sotto le gambe. Non ce la faceva più, era troppo stanco dopo la dura lotta con il leone e il toro. Era la fine per Tur Alì. Sei uomini muscolosi lo presero per le braccia e si prepararono a tagliargli la testa. Ma i quaranta compagni lo incoraggiarono;
- Tur Alì, rimettiti in piedi e ricorda chi sei! Sei venuto in questo paese, hai lottato da eroe, hai ucciso il leone e il toro, non hai avuto paura di nessuno. Pensa alla nostra tribù, ai poveri Oguz che ricorderanno la tua sconfitta. Pensa alla povera madre in lacrime, al padre che sarà disperato! La principessa è nelle tue mani e tu, amico, la rifiuti?
Tur Alì si scosse. Chiese la protezione del grande Maometto, il Profeta, e di Allah, l'unico dio, e si lanciò contro il cammello.
Gli assestò un calcio tale che gli spezzò una zampa, poi gli andò sopra e lo strangolò.
Il principe sorrise compiaciuto.
- Cavaliere, non mi ero sbagliato: sei forte e coraggioso. L'ho subito capito.
Poi, rivolto ai suoi, disse:
- Preparate quaranta tende per i quaranta cavalieri e affrettate la cerimonia nuziale. Si faccia tutto al più presto! Avvertite mia figlia Salgan Hatun.
Il giorno dopo Tur Alì pensò che fosse meglio avvertire suo padre della bella impresa; dopo avrebbe pensato alle nozze. Fu così che si presentò al principe e gli chiese congedo. Sarebbe partito con Salgan Hatun.
- Partite pure - assicurò il principe con un dubbio sorriso. - Che Allah guidi e vostri passi! Vi attenderò.
Tur Alì e Salgan Hatun si allontanarono da Trebisonda e dopo un lungo cammino, piantarono la tenda in una valle.
Intanto, il principe aveva cambiato idea sul matrimonio della figlia e aveva deciso di non darla più in sposa a Tur Alì. Non gli importava di avere per genero un giovane tanto valoroso: era uno straniero, un infedele, uno che veniva da lontano.
- Un esercito insegua Tur Alì e mia figlia! - urlò nella grande sala del palazzo - Riportatemi Salgan Hatun!
I cavalli corsero come furie e presto raggiunsero la tenda di Tur Alì. Ad accorgersi del pericolo fu la sua sposa:
- Svegliati, mio sposo, - gli disse dolcemente - i nemici sono arrivati. Vedo che hanno cattive intenzioni. Armati e dimostra qual è il tuo valore. Io ti sarò vicino col mio amore.
- Pregherò dapprima il nostro grande dio - le rispose Tur Alì.
Il giovane si levò in piedi, recitò le preghiere di rito, si armò e corse a combattere. Quando vide la sua sposa correre armata contro i nemici, ne fu meravigliato e le disse:
- Dove vai, dolce sposa?
- Vado incontro ai nemici, non posso restare qui - rispose lei. Sono troppi e bisogna combattere entrambi o morire.
- Sei una donna coraggiosa - esclamò Tur Alì ammirato.
Durante la battaglia la sposa combattè con coraggio e, quando vide il suo uomo assalito da cento nemici armati, non esitò a lanciarsi nella mischia con strage di tutti. Tur Alì aveva il viso bagnato di sangue; il suo cavallo era stato colpito. Salgan Hatun gli salvò la vita. Non un solo nemico sopravvisse.
Tur Alì ebbe quasi invidia della sposa. Pensò che potesse vantarsi di essere più forte di lui.
- E' possibile che tu sia così abile in combattimento? - le chiese.
- Avrei dovuto lasciarti uccidere, mio sposo? - rispose lei con semplicità.
Si avvicinarono, si baciarono. Risalirono a cavallo e raggiunsero la terra degli Oguz dove festeggiarono le loro nozze.


giovedì 18 ottobre 2012

Eveline - James Joyce




Sedeva alla finestra guardando la sera prender possesso del viale. Teneva la testa appoggiata alle tendine e aveva nelle narici l'odore del cretonne polveroso. Era stanca.
C'erano pochi passanti. Quello che abitava l'ultima casa giù in fondo passò per rientrare; lei sentì i passi risuonare sul marciapiede di cemento e il cigolio dei detriti sul sentiero davanti alle nuove case rosse. Una volta c'era un campo al loro posto in cui andavano a giocare tutte le sere con i ragazzi di altre famiglie. Poi un tale di Belfast comprò il campo e ci costruì delle case; non catapecchie come le loro, ma abitazioni in mattoni dal color chiaro e dai tetti fulgidi. Ci andavano tutti i ragazzi del viale a giocare in quel campo: i Devine, i Water, i Dunn, il piccolo Keogh lo storpio, e lei con i suoi fratelli e sorelle. Ernest era quello che non giocava mai: ormai era troppo grande. Veniva sovente suo padre a cacciarli con un bastone di pruno; ma in genere c'era il piccolo Keogh a fare da palo e a gettar loro la voce quando lo vedeva arrivare. Eppure erano stati felici allora, così almeno credevano. E poi a quel tempo suo padre non era così cattivo, e sua madre era ancora viva. Tutto questo accadeva tanto tempo fa; adesso lei e i suoi fratelli e sorelle si erano fatti grandi e sua madre era morta. Anche Tizzie Dunn era morto e i Water erano tornati in Inghilterra. Tutto cambia. Ora anche lei stava per andarsene e lasciare la casa.
La casa! Si guardò attorno nella stanza passando in rassegna gli oggetti familiari che aveva spolverato una volta alla settimana per tanti anni, chiedendosi da dove poteva venire tutta quella polvere. Forse non li avrebbe più rivisti quegli oggetti di sempre dai quali non si sarebbe mai sognata di separarsi. Eppure in tutti quegli anni non le era riuscito di sapere il nome del prete la cui foto ingiallita era appesa alla parete proprio sopra l'harmonium rotto, accanto alla stampa colorata coi voti fatti alla Beata Margherita Maria Alacoque.
Era stato compagno di scuola di suo padre e ogni volta che questi mostrava la fotografia a un visitatore, accompagnava il gesto con una battuta casuale:
- Si trova a Melbourne, adesso.
Ora che anche lei aveva acconsentito ad andarsene, a lasciare la casa. Ma era giusto? Cercava di valutare ogni aspetto della faccenda. A casa sua avrebbe avuto comunque un tetto e un pezzo di pane; e la compagnia di coloro a cui era avvezza sin dalla nascita. Doveva sgobbare, questo è certo, sia a casa che a lavoro. Cosa avrebbero detto ai magazzini quando si fosse saputo che era fuggita con uno sconosciuto? L'avrebbero bollata per una pazza, probabilmente; e l'avrebbero rimpiazzata con un annuncio sul giornale. Miss Gavan sarebbe stata contenta. L'aveva sempre presa di punta, specie se c'era gente a sentire.
- Miss Hill, non vedete che ci sono delle signore che aspettano?
- Ma smuovetevi, Miss Hill, per piacere.
Non c'era certamente da piangerci a lasciare i magazzini. Ma nella nuova casa, in un paese lontano e sconosciuto, non sarebbe stato così. Sarebbe stata una donna maritata, sì, proprio lei, Eveline. La gente l'avrebbe trattata con rispetto. Non l'avrebbero trattata come era toccato a sua madre. Anche ora che aveva più di diciannove anni, temeva talora di subire la violenza paterna. E questo, lo sapeva bene, le aveva fatto venire le palpitazioni. Quando erano ancora piccoli, non se l'era mai presa con lei, come aveva fatto con Harry e con Ernest, perché era una ragazzina; ma poi aveva cominciato a minacciarla e a dirle che se non fosse stato per la memoria di sua madre gliele avrebbe suonate. E ora non c'era più nessuno a proteggerla. Ernest era morto e Harry, che lavorava come decoratore di chiese, era quasi sempre fuori da qualche parte del paese. E poi quelle eterne discussioni per i soldi il sabato sera avevano cominciato a sfinirla. Tutto quanto prendeva - sette scellini - lo metteva in famiglia e Harry mandava tutto quel che poteva, ma il guaio era cavarli a suo padre, i soldi. Lui non faceva che dirle che scialacquava il denaro, che non aveva cervello, che non intendeva darle i soldi guadagnati col sudore della fronte per vederli buttare dalla finestra, e anche di peggio le diceva, perché aveva sempre i nervi il sabato sera. Alla fine però glieli dava e le chiedeva se avrebbe comprato qualcosa per il pranzo della domenica. Così doveva precipitarsi in fretta e furia a fare la spesa, stringendo in mano la borsetta nera, mentre s'apriva un varco tra la folla a gomitate, per rincasare tardi stracarica di roba. Aveva il suo bel daffare a badare alla casa, a mandare a scuola i due fratelli minori che le erano stati affidati e far sì che avessero i loro pasti regolari. Un lavoro pesante, una vita dura, ma ora che s'apprestava a lasciarla non le sembrava tanto insopportabile.
Stava per sperimentare una vita diversa con Frank. Frank era veramente gentile, forte e generoso. Sarebbe partita con lui col bastimento della notte per diventare sua moglie e andare a stare a Buenos Aires nella casa che l'aspettava. Se la ricordava bene la prima volta che l'aveva visto, quando era a pensione in una casa della via maestra dove lei andava a far visita. Sembrava appena qualche settimana fa. Se ne stava al cancello, il berretto a visiera gettato all'indietro sulla nuca e i capelli che gli ricadevano sul volto abbronzato. Poi avevano fatto conoscenza. L'aspettava tutte le sere fuori dai grandi magazzini e l'accompagnava a casa. L'aveva portata anche a vedere La ragazza di Boemia e non le era sembrato vero starsene con lui a teatro in posti che non le erano abituali. Andava matto per la musica ed era capace anche di cantare. Lo sapevano tutti che si volevano bene e quando cantava la canzone della ragazza innamorata del marinaio, lei si sentiva amabilmente imbarazzata. La chiamava la sua bambolina, tanto per ridere. Da principio si era sentita lusingata all'idea di avere un corteggiatore, poi aveva cominciato a volergli bene. Le raccontava di paesi lontani e di come aveva iniziato da mozzo, a una sterlina al mese, su una nave della compagnia Allan che andava in Canada. Le recitava i nomi delle navi nelle quali era stato imbarcato e delle diverse mansioni. Aveva passato lo stretto di Magellano e così le narrava storie dei terribili abitanti della Patagonia. A Buenos Aires gli era andata bene, diceva, e in patria c'era tornato giusto per una vacanza. Suo padre, nemmeno a dirlo, aveva scoperto tutto e le aveva proibito di rivederlo.
- Li conosco, io, questi marinai! - aveva detto.
Un giorno lui aveva litigato con Frank e da allora s'erano dovuti incontrare di nascosto.
Nel viale s'addensava la sera. Il biancore delle due lettere che teneva in grembo si faceva indistinto. Una era per Harry e l'altra per il padre. Ernest era stato il suo prediletto, ma voleva bene anche a Harry. Aveva notato che suo padre era andato giù, di recente, e avrebbe sentito la sua mancanza. Talvolta sapeva essere carino anche lui. Non molto tempo prima, quando era rimasta a letto per un giorno ammalata, le aveva letto una storia di fantasmi e le aveva abbrustolito il pane sul fuoco. Un'altra volta, quando ancora la madre era viva, erano andati tutti quanti a far merenda sulla collina di Howth. Ricordava che suo padre s'era messo in testa il cappellino della mamma per far ridere i bambini.
Il tempo passava ma lei rimaneva seduta presso la finestra, la testa appoggiata sulle tendine respirando l'odore del cretonne polveroso. Sentiva le note di un organetto che provenivano giù dal viale. Lo conosceva quel motivo. Strano che venisse proprio quella sera a ricordarle la promessa fatta alla madre di tenere la famiglia unita sin quando le fosse stato possibile. Le tornò alla mente l'ultima notte della sua malattia; si rivide nella stanza buia, soffocante in fondo al corridoio mentre da fuori giungeva una triste canzone italiana. Avevano dato sei pence al suonatore perché se ne andasse. Ricordava che il padre era rientrato impettito nella camera della malata dicendo:
- Maledetti italiani! Proprio qui devono venire!
Mentre meditava, la penosa visione della vita trascorsa dalla madre tesseva un incantesimo malefico nel suo intimo; la sua era stata una vita di meschini sacrifici conclusasi nella follia. Tremò a riudire la voce della madre che ripeteva con demente ossessione:
"Derevan Seraun! Derevan Seraun!"
Balzò in piedi spinta da un terrore improvviso. Fuggire! Doveva fuggire! Frank l'avrebbe portata in salvo. Le avrebbe dato la vita e forse anche l'amore. Lei voleva vivere davvero. Perché avrebbe dovuto essere infelice? Aveva diritto anche lei alla felicità. Frank l'avrebbe presa tra le braccia, l'avrebbe stretta: l'avrebbe salvata.

Era in mezzo alla folla ondeggiante nella stazione di North Wall. Lui la teneva per mano; sapeva che lui le stava parlando, che le ripeteva in continuazione qualcosa circa la traversata. La stazione era gremita di soldati con i loro zaini scuri. Attraverso le ampie porte della tettoia intravide la massa nera del piroscafo con gli oblò illuminati ancorato accanto alla murata della banchina. Non rispose nulla. Si sentiva le guance pallide e fredde e in quel groviglio di disperazione pregava Dio che le facesse da guida, che le indicasse quale fosse il suo dovere. Il piroscafo gettò nella nebbia un lungo sibilo lamentoso. Se fosse partita, domani si sarebbe trovata in alto mare con Frank, diretta a Buenos Aires. Avevano già prenotato i posti. Come avrebbe potuto tirarsi indietro dopo tutto quello che aveva fatto per lei? La disperazione le provocò un senso di nausea; continuò a muovere le labbra pregando con fervore, in silenzio.
Una campana le risuonò sul cuore. Sentì che lui le prendeva la mano:
- Vieni!
Tutti i mari del mondo le si abbatterono sul cuore. Lui ce la trascinava dentro, la voleva affogare. S'avvinghiò con entrambe le mani alla ringhiera.
- Vieni!
No! No! No! Era impossibile. In un accesso di frenesia le sue mani strinsero le sbarre. Dal mezzo dei mari mandò un grido d'angoscia.
- Eveline! Evvy!
Si precipitò oltre i cancelli chiamandola perché lo seguisse. Gli urlarono di proseguire ma lui continuava a chiamarla. Allora lei gli mostrò il volto esangue, come quello di un animale spaurito. I suoi occhi non gli dettero il minimo segno d'amore o di addio o di riconoscimento.

Versi scritti poco lontani dalla mia casa - William Wordsworth




E' questo il primo giorno mite di marzo,
più fragrante di momento in momento,
col pettirosso che cinguetta in cima al larice
che sorge accanto alla nostra casa.

Aleggia nell'aria una benedizione
che sembra infondere un senso di gioia
agli alberi spogli, alle nude montagne
ed ai verdi campi erbosi.

Sorella mia! Ho un desiderio:
ora che la nostra colazione è terminata,
fai presto, lascia le faccende mattutine,
e vieni fuori a goderti il sole.

Edward verrà con te, e ti prego,
presto, metti il tuo abito silvestre,
e non portar libri, ché questo giorno
noi lo dedichiamo al riposo.

Nessuna tetra parvenza sarà legge
per il nostro vivente calendario:
da oggi, amica mia, data per noi
l'inizio dell'anno.

Amore, che ora ovunque rinasce,
migra furtivo di cuore in cuore,
dalla terra all'uomo, dall'uomo alla terra,
- E' questa l'ora dei sentimenti.

Ora un momento potrà darci di più
di cinquant'anni di ragionamenti;
le nostre menti succhieranno da ogni poro
lo spirito della stagione.

Poche tacite leggi si daranno i nostri cuori
cui prestare lunga obbedienza;
per l'anno a venire prenderemo
l'esempio da quest'oggi.

E dal beato potere che aleggia
d'intorno, quaggiù e su in cielo,
trarremo la misura delle anime nostre,
accordandole alla nota d'amore.

Orsù vieni, sorella mia! Vieni, ti prego,
presto, mettiti il tuo abito silvestre,
e non portar libri, ché questo giorno
noi lo dedicheremo al riposo.

***

It is the first mild day of March:
Each minute sweeter than before,
The red-breast sings from the tall larch
That stands beside our door.

There is a blessing in the air,
Which seems a sense of joy to yeld
To the bare trees, and mountains bare,
And grass in the green field.

My Sister! ('tis a wish of mine)
Now that our morning meal is done,
Make haste, your morning task resign;
Come forth and feel the sun.

Edward will come with you, and pray,
Put on with speed your woodland dress,
And bring no book, for this one day
We'll give to idelness.

No joyless forms shall regulate
Our living Calendar:
We from to-day, my friend, will date
The opening of the year.

Love, now an universal birth,
From heart to heart is stealing,
From earth to man, from man to earth,
- It is the hour of feeling.

One moment now may give us more
Than fifty years of reason;
Our minds shall drink at every pore
The spirit of the season.

Some silent laws our hearts may make,
Which they shall long obey;
We for the year to come may take
Our temper for to-day.

And from the blessed power that rolls
About, below, above;
We'll frame the measure of our souls,
They shall be turned to love.

Then come, my sister! come, I pray,
With speed put on your woodland dress,
And bring no book; for this one day
We'll give to idelness.