Raccolta di racconti, favole e poesie

giovedì 18 ottobre 2012

Eveline - James Joyce




Sedeva alla finestra guardando la sera prender possesso del viale. Teneva la testa appoggiata alle tendine e aveva nelle narici l'odore del cretonne polveroso. Era stanca.
C'erano pochi passanti. Quello che abitava l'ultima casa giù in fondo passò per rientrare; lei sentì i passi risuonare sul marciapiede di cemento e il cigolio dei detriti sul sentiero davanti alle nuove case rosse. Una volta c'era un campo al loro posto in cui andavano a giocare tutte le sere con i ragazzi di altre famiglie. Poi un tale di Belfast comprò il campo e ci costruì delle case; non catapecchie come le loro, ma abitazioni in mattoni dal color chiaro e dai tetti fulgidi. Ci andavano tutti i ragazzi del viale a giocare in quel campo: i Devine, i Water, i Dunn, il piccolo Keogh lo storpio, e lei con i suoi fratelli e sorelle. Ernest era quello che non giocava mai: ormai era troppo grande. Veniva sovente suo padre a cacciarli con un bastone di pruno; ma in genere c'era il piccolo Keogh a fare da palo e a gettar loro la voce quando lo vedeva arrivare. Eppure erano stati felici allora, così almeno credevano. E poi a quel tempo suo padre non era così cattivo, e sua madre era ancora viva. Tutto questo accadeva tanto tempo fa; adesso lei e i suoi fratelli e sorelle si erano fatti grandi e sua madre era morta. Anche Tizzie Dunn era morto e i Water erano tornati in Inghilterra. Tutto cambia. Ora anche lei stava per andarsene e lasciare la casa.
La casa! Si guardò attorno nella stanza passando in rassegna gli oggetti familiari che aveva spolverato una volta alla settimana per tanti anni, chiedendosi da dove poteva venire tutta quella polvere. Forse non li avrebbe più rivisti quegli oggetti di sempre dai quali non si sarebbe mai sognata di separarsi. Eppure in tutti quegli anni non le era riuscito di sapere il nome del prete la cui foto ingiallita era appesa alla parete proprio sopra l'harmonium rotto, accanto alla stampa colorata coi voti fatti alla Beata Margherita Maria Alacoque.
Era stato compagno di scuola di suo padre e ogni volta che questi mostrava la fotografia a un visitatore, accompagnava il gesto con una battuta casuale:
- Si trova a Melbourne, adesso.
Ora che anche lei aveva acconsentito ad andarsene, a lasciare la casa. Ma era giusto? Cercava di valutare ogni aspetto della faccenda. A casa sua avrebbe avuto comunque un tetto e un pezzo di pane; e la compagnia di coloro a cui era avvezza sin dalla nascita. Doveva sgobbare, questo è certo, sia a casa che a lavoro. Cosa avrebbero detto ai magazzini quando si fosse saputo che era fuggita con uno sconosciuto? L'avrebbero bollata per una pazza, probabilmente; e l'avrebbero rimpiazzata con un annuncio sul giornale. Miss Gavan sarebbe stata contenta. L'aveva sempre presa di punta, specie se c'era gente a sentire.
- Miss Hill, non vedete che ci sono delle signore che aspettano?
- Ma smuovetevi, Miss Hill, per piacere.
Non c'era certamente da piangerci a lasciare i magazzini. Ma nella nuova casa, in un paese lontano e sconosciuto, non sarebbe stato così. Sarebbe stata una donna maritata, sì, proprio lei, Eveline. La gente l'avrebbe trattata con rispetto. Non l'avrebbero trattata come era toccato a sua madre. Anche ora che aveva più di diciannove anni, temeva talora di subire la violenza paterna. E questo, lo sapeva bene, le aveva fatto venire le palpitazioni. Quando erano ancora piccoli, non se l'era mai presa con lei, come aveva fatto con Harry e con Ernest, perché era una ragazzina; ma poi aveva cominciato a minacciarla e a dirle che se non fosse stato per la memoria di sua madre gliele avrebbe suonate. E ora non c'era più nessuno a proteggerla. Ernest era morto e Harry, che lavorava come decoratore di chiese, era quasi sempre fuori da qualche parte del paese. E poi quelle eterne discussioni per i soldi il sabato sera avevano cominciato a sfinirla. Tutto quanto prendeva - sette scellini - lo metteva in famiglia e Harry mandava tutto quel che poteva, ma il guaio era cavarli a suo padre, i soldi. Lui non faceva che dirle che scialacquava il denaro, che non aveva cervello, che non intendeva darle i soldi guadagnati col sudore della fronte per vederli buttare dalla finestra, e anche di peggio le diceva, perché aveva sempre i nervi il sabato sera. Alla fine però glieli dava e le chiedeva se avrebbe comprato qualcosa per il pranzo della domenica. Così doveva precipitarsi in fretta e furia a fare la spesa, stringendo in mano la borsetta nera, mentre s'apriva un varco tra la folla a gomitate, per rincasare tardi stracarica di roba. Aveva il suo bel daffare a badare alla casa, a mandare a scuola i due fratelli minori che le erano stati affidati e far sì che avessero i loro pasti regolari. Un lavoro pesante, una vita dura, ma ora che s'apprestava a lasciarla non le sembrava tanto insopportabile.
Stava per sperimentare una vita diversa con Frank. Frank era veramente gentile, forte e generoso. Sarebbe partita con lui col bastimento della notte per diventare sua moglie e andare a stare a Buenos Aires nella casa che l'aspettava. Se la ricordava bene la prima volta che l'aveva visto, quando era a pensione in una casa della via maestra dove lei andava a far visita. Sembrava appena qualche settimana fa. Se ne stava al cancello, il berretto a visiera gettato all'indietro sulla nuca e i capelli che gli ricadevano sul volto abbronzato. Poi avevano fatto conoscenza. L'aspettava tutte le sere fuori dai grandi magazzini e l'accompagnava a casa. L'aveva portata anche a vedere La ragazza di Boemia e non le era sembrato vero starsene con lui a teatro in posti che non le erano abituali. Andava matto per la musica ed era capace anche di cantare. Lo sapevano tutti che si volevano bene e quando cantava la canzone della ragazza innamorata del marinaio, lei si sentiva amabilmente imbarazzata. La chiamava la sua bambolina, tanto per ridere. Da principio si era sentita lusingata all'idea di avere un corteggiatore, poi aveva cominciato a volergli bene. Le raccontava di paesi lontani e di come aveva iniziato da mozzo, a una sterlina al mese, su una nave della compagnia Allan che andava in Canada. Le recitava i nomi delle navi nelle quali era stato imbarcato e delle diverse mansioni. Aveva passato lo stretto di Magellano e così le narrava storie dei terribili abitanti della Patagonia. A Buenos Aires gli era andata bene, diceva, e in patria c'era tornato giusto per una vacanza. Suo padre, nemmeno a dirlo, aveva scoperto tutto e le aveva proibito di rivederlo.
- Li conosco, io, questi marinai! - aveva detto.
Un giorno lui aveva litigato con Frank e da allora s'erano dovuti incontrare di nascosto.
Nel viale s'addensava la sera. Il biancore delle due lettere che teneva in grembo si faceva indistinto. Una era per Harry e l'altra per il padre. Ernest era stato il suo prediletto, ma voleva bene anche a Harry. Aveva notato che suo padre era andato giù, di recente, e avrebbe sentito la sua mancanza. Talvolta sapeva essere carino anche lui. Non molto tempo prima, quando era rimasta a letto per un giorno ammalata, le aveva letto una storia di fantasmi e le aveva abbrustolito il pane sul fuoco. Un'altra volta, quando ancora la madre era viva, erano andati tutti quanti a far merenda sulla collina di Howth. Ricordava che suo padre s'era messo in testa il cappellino della mamma per far ridere i bambini.
Il tempo passava ma lei rimaneva seduta presso la finestra, la testa appoggiata sulle tendine respirando l'odore del cretonne polveroso. Sentiva le note di un organetto che provenivano giù dal viale. Lo conosceva quel motivo. Strano che venisse proprio quella sera a ricordarle la promessa fatta alla madre di tenere la famiglia unita sin quando le fosse stato possibile. Le tornò alla mente l'ultima notte della sua malattia; si rivide nella stanza buia, soffocante in fondo al corridoio mentre da fuori giungeva una triste canzone italiana. Avevano dato sei pence al suonatore perché se ne andasse. Ricordava che il padre era rientrato impettito nella camera della malata dicendo:
- Maledetti italiani! Proprio qui devono venire!
Mentre meditava, la penosa visione della vita trascorsa dalla madre tesseva un incantesimo malefico nel suo intimo; la sua era stata una vita di meschini sacrifici conclusasi nella follia. Tremò a riudire la voce della madre che ripeteva con demente ossessione:
"Derevan Seraun! Derevan Seraun!"
Balzò in piedi spinta da un terrore improvviso. Fuggire! Doveva fuggire! Frank l'avrebbe portata in salvo. Le avrebbe dato la vita e forse anche l'amore. Lei voleva vivere davvero. Perché avrebbe dovuto essere infelice? Aveva diritto anche lei alla felicità. Frank l'avrebbe presa tra le braccia, l'avrebbe stretta: l'avrebbe salvata.

Era in mezzo alla folla ondeggiante nella stazione di North Wall. Lui la teneva per mano; sapeva che lui le stava parlando, che le ripeteva in continuazione qualcosa circa la traversata. La stazione era gremita di soldati con i loro zaini scuri. Attraverso le ampie porte della tettoia intravide la massa nera del piroscafo con gli oblò illuminati ancorato accanto alla murata della banchina. Non rispose nulla. Si sentiva le guance pallide e fredde e in quel groviglio di disperazione pregava Dio che le facesse da guida, che le indicasse quale fosse il suo dovere. Il piroscafo gettò nella nebbia un lungo sibilo lamentoso. Se fosse partita, domani si sarebbe trovata in alto mare con Frank, diretta a Buenos Aires. Avevano già prenotato i posti. Come avrebbe potuto tirarsi indietro dopo tutto quello che aveva fatto per lei? La disperazione le provocò un senso di nausea; continuò a muovere le labbra pregando con fervore, in silenzio.
Una campana le risuonò sul cuore. Sentì che lui le prendeva la mano:
- Vieni!
Tutti i mari del mondo le si abbatterono sul cuore. Lui ce la trascinava dentro, la voleva affogare. S'avvinghiò con entrambe le mani alla ringhiera.
- Vieni!
No! No! No! Era impossibile. In un accesso di frenesia le sue mani strinsero le sbarre. Dal mezzo dei mari mandò un grido d'angoscia.
- Eveline! Evvy!
Si precipitò oltre i cancelli chiamandola perché lo seguisse. Gli urlarono di proseguire ma lui continuava a chiamarla. Allora lei gli mostrò il volto esangue, come quello di un animale spaurito. I suoi occhi non gli dettero il minimo segno d'amore o di addio o di riconoscimento.

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