Raccolta di racconti, favole e poesie

domenica 28 ottobre 2012

Senza parole - Konstantin D. Balmont



Campagna di Russia, c'è in te una solenne
ma tacita voce di doglie struggenti,
desio senza speme, silenzio perenne,
vertigini fredde, pianure fuggenti.

O vieni all'aurora sull'erta del prato!
Sul fiume si libra la bruma serena.
Nereggia la mole del bosco agghiacciato.
Al cuore fa male, al cuore fa pena.

Non tremano canne. Non frusciano piante.
Languore profondo. Silenzio assoluto.
Galoppano i campi distante distante.
Opprime le cose l'oblio sordo e muto.

Oh vieni al tramonto nei parchi notturni,
del gelido stagno nell'ombra serena.
Là gli alberi sono così taciturni,
e il cuore si strugge, si strugge di pena,

così come quando non viene esaudito
un suo desiderio o fannogli male,
e pur perdonando rimane ferito
a lungo piangendo l'inutile male.

mercoledì 24 ottobre 2012

Tur Alì e la principessa di Trebisonda - favola turca



La bellezza della principessa di Trebisonda, la potente città che si affacciava sul Mar Nero, era nota in tutte le terre.
Era un'amazzone eccezionale: tirava due archi insieme, a destra e a sinistra. Ogni suo colpo era micidiale. Nessuno poteva competere con lei.
Un giorno, suo padre decise di darla in moglie a un uomo di molto coraggio che fosse stato così abile da uccidere tre belve: il leone reale, un cammello selvaggio e un toro feroce. Già trentadue uomini si erano presentati a corte per il tentativo e trentadue teste pendevano dai torrioni del castello. Proprio questo era il destino di chi falliva la prova delle belve: essere decapitato.
Di passaggio da Trebisonda, Quanli Qoga, il valoroso principe della tribù degli Oguz, notò le teste appese al castello e ne ebbe tale paura che i pidocchi della sua testa caddero stecchiti ai suoi piedi.
"Se mio figlio vorrà - pensò tra sé - potrà provare a vincere le tre belve. Ha coraggio certamente, ma se non se la sente di venire qui, che si accontenti pure delle donne della nostra tribù".
Tornato dai suoi, Qanli Qoga, si recò dal figlio Tur Alì e gli parlò:
- Figlio mio, ho trovato la ragazza che potresti sposare, ma ci vuole tanto coraggio!
- Coraggio?
- Coraggio, solo tanto coraggio.
- Allora non mi resta che armare il cavallo e partire contro questo nemico. Vedrai se in battaglia so usare questo braccio e abbattere i nemici. Tornerò carico di schiavi e schiave.
- Cos'hai capito, figlio mio? Non ti chiedevo una prova siffatta. Il padre della fanciulla, il re di Trebisonda, la darà in sposa a chi avrà ucciso tre belve feroci. Chi fallisce la prova, è condannato alla decapitazione. Molte teste sono già appese al torrione del castello.
- Andrò, padre, non posso fare a meno di andare.
Qanli Qoga ebbe un tuffo al cuore e si pentì d'aver parlato al figlio della principessa di Trebisonda.
- Figlio mio, - gli disse - l'impresa è difficile: la ragazza è molto bella, ma il carnefice è pronto a mozzarti la testa. Pensaci bene e non dare questo dolore alla tua vecchia madre e a tuo padre dai capelli bianchi.
- Padre, rispose Tur Alì - non posso comportarmi da vile. Andrò a Trebisonda dalla principessa e lotterò con le belve feroci. Forse sarò fatto a pezzi da quelle, forse sarò io a metterle sotto i miei piedi. Ma voi non abbiate timore e state tranquilli!
Non c'era verso di convincere Tur Alì, perciò i genitori gli dissero:
- Vai e sii fortunato! Ti aspettiamo.
Tur Alì preparò ogni cosa, fece armare i suoi quaranta cavalieri e si avviò. Dopo sette giorni e sette notti di cammino, toccarono il confine col regno di Trebisonda. Al nuovo giorno entrarono in città e si recarono dal principe.
- Eccomi qui, pronto per la prova - disse Tur Alì.
- Da dove vieni? - gli domandò il principe.
- Vengo da lontano, dalla tribù degli Oguz di cui è signore mio padre, Qanli Qoga. Ho cavalcato sette giorni e sette notti per raggiungere Trebisonda. Voglio tua figlia in sposa. Che il dio Allah sia testimone!
- Sarai sottoposto alla prova, subito!
Tur Alì fu accompagnato al campo e destò la meraviglia di tutti, anche della principessa che lo osservava dal chiosco.
"E' meraviglioso questo cavaliere! - ella si disse - Sarebbe un peccato se morisse per colpa di quelle belve. Volesse Iddio convincere mio padre a darmi in sposa a lui senza la terribile prova!"
Fu portato il toro legato con una catena di ferro. Era un bestione immenso che scalpitava inferocito. Al solo vederlo i quaranta cavalieri di Tur Alì furono presi dalla disperazione e cominciarono a piangere. Ma il giovane li rincuorò:
- Perché vi disperate? Che il toro sia lasciato libero e si lanci contro di me!
Fu tolta la catena al toro. Il bestione allora puntò su Tur Alì, simile a una tempesta, ma il giovane non si spaventò e gli assestò un gran pugno sulla testa. Il toro barcollò e si inginocchiò sulle zampe posteriori, poi tornò alla carica. Tur Alì non cedette e a lungo lottò con quel mostro, finché lo vide stanco e con la schiuma alla bocca. Allora lo prese per la coda e lo scaraventò a terra: lo strangolò, lo scuoiò e ne portò la pelle al principe. Rimasero tutti a bocca aperta.
Si fece allora avanti il nipote del principe e disse:
- E' la volta del leone. La principessa non è ancora sposa dello straniero.
Fu fatto uscire il leone. Al vederlo i cavalli vomitarono sangue e i quaranta cavalieri di Tur Alì si misero a piangere, ma il giovane non aveva paura e disse:
- Perché vi disperate? Ho con me la fedele spada con la quale saprò farmi giustizia.
Il leone avanzò contro Tur Alì; era terribile, ma ne ebbe un tremendo fendente sulla fronte e la mascella fracassata. Poi il giovane lo sollevò e lo scagliò con forza sul campo. Il leone non si mosse più.
- Ti basta ciò che ho fatto? - domandò Tur Alì al principe - non potresti già darmi tua figlia in sposa?
- Date mia figlia a questo valoroso - sentenziò il principe.
- No, principe, - intervenne il nipote - resta che quest'uomo combatta contro il cammello. Se lo vincerà, avrà  tua figlia.
Anche il cammello fu portato nel campo. Questa volta Tur Alì se la vide brutta. Il forte animale lo inseguiva e lui gli passava sotto le gambe. Non ce la faceva più, era troppo stanco dopo la dura lotta con il leone e il toro. Era la fine per Tur Alì. Sei uomini muscolosi lo presero per le braccia e si prepararono a tagliargli la testa. Ma i quaranta compagni lo incoraggiarono;
- Tur Alì, rimettiti in piedi e ricorda chi sei! Sei venuto in questo paese, hai lottato da eroe, hai ucciso il leone e il toro, non hai avuto paura di nessuno. Pensa alla nostra tribù, ai poveri Oguz che ricorderanno la tua sconfitta. Pensa alla povera madre in lacrime, al padre che sarà disperato! La principessa è nelle tue mani e tu, amico, la rifiuti?
Tur Alì si scosse. Chiese la protezione del grande Maometto, il Profeta, e di Allah, l'unico dio, e si lanciò contro il cammello.
Gli assestò un calcio tale che gli spezzò una zampa, poi gli andò sopra e lo strangolò.
Il principe sorrise compiaciuto.
- Cavaliere, non mi ero sbagliato: sei forte e coraggioso. L'ho subito capito.
Poi, rivolto ai suoi, disse:
- Preparate quaranta tende per i quaranta cavalieri e affrettate la cerimonia nuziale. Si faccia tutto al più presto! Avvertite mia figlia Salgan Hatun.
Il giorno dopo Tur Alì pensò che fosse meglio avvertire suo padre della bella impresa; dopo avrebbe pensato alle nozze. Fu così che si presentò al principe e gli chiese congedo. Sarebbe partito con Salgan Hatun.
- Partite pure - assicurò il principe con un dubbio sorriso. - Che Allah guidi e vostri passi! Vi attenderò.
Tur Alì e Salgan Hatun si allontanarono da Trebisonda e dopo un lungo cammino, piantarono la tenda in una valle.
Intanto, il principe aveva cambiato idea sul matrimonio della figlia e aveva deciso di non darla più in sposa a Tur Alì. Non gli importava di avere per genero un giovane tanto valoroso: era uno straniero, un infedele, uno che veniva da lontano.
- Un esercito insegua Tur Alì e mia figlia! - urlò nella grande sala del palazzo - Riportatemi Salgan Hatun!
I cavalli corsero come furie e presto raggiunsero la tenda di Tur Alì. Ad accorgersi del pericolo fu la sua sposa:
- Svegliati, mio sposo, - gli disse dolcemente - i nemici sono arrivati. Vedo che hanno cattive intenzioni. Armati e dimostra qual è il tuo valore. Io ti sarò vicino col mio amore.
- Pregherò dapprima il nostro grande dio - le rispose Tur Alì.
Il giovane si levò in piedi, recitò le preghiere di rito, si armò e corse a combattere. Quando vide la sua sposa correre armata contro i nemici, ne fu meravigliato e le disse:
- Dove vai, dolce sposa?
- Vado incontro ai nemici, non posso restare qui - rispose lei. Sono troppi e bisogna combattere entrambi o morire.
- Sei una donna coraggiosa - esclamò Tur Alì ammirato.
Durante la battaglia la sposa combattè con coraggio e, quando vide il suo uomo assalito da cento nemici armati, non esitò a lanciarsi nella mischia con strage di tutti. Tur Alì aveva il viso bagnato di sangue; il suo cavallo era stato colpito. Salgan Hatun gli salvò la vita. Non un solo nemico sopravvisse.
Tur Alì ebbe quasi invidia della sposa. Pensò che potesse vantarsi di essere più forte di lui.
- E' possibile che tu sia così abile in combattimento? - le chiese.
- Avrei dovuto lasciarti uccidere, mio sposo? - rispose lei con semplicità.
Si avvicinarono, si baciarono. Risalirono a cavallo e raggiunsero la terra degli Oguz dove festeggiarono le loro nozze.


giovedì 18 ottobre 2012

Eveline - James Joyce




Sedeva alla finestra guardando la sera prender possesso del viale. Teneva la testa appoggiata alle tendine e aveva nelle narici l'odore del cretonne polveroso. Era stanca.
C'erano pochi passanti. Quello che abitava l'ultima casa giù in fondo passò per rientrare; lei sentì i passi risuonare sul marciapiede di cemento e il cigolio dei detriti sul sentiero davanti alle nuove case rosse. Una volta c'era un campo al loro posto in cui andavano a giocare tutte le sere con i ragazzi di altre famiglie. Poi un tale di Belfast comprò il campo e ci costruì delle case; non catapecchie come le loro, ma abitazioni in mattoni dal color chiaro e dai tetti fulgidi. Ci andavano tutti i ragazzi del viale a giocare in quel campo: i Devine, i Water, i Dunn, il piccolo Keogh lo storpio, e lei con i suoi fratelli e sorelle. Ernest era quello che non giocava mai: ormai era troppo grande. Veniva sovente suo padre a cacciarli con un bastone di pruno; ma in genere c'era il piccolo Keogh a fare da palo e a gettar loro la voce quando lo vedeva arrivare. Eppure erano stati felici allora, così almeno credevano. E poi a quel tempo suo padre non era così cattivo, e sua madre era ancora viva. Tutto questo accadeva tanto tempo fa; adesso lei e i suoi fratelli e sorelle si erano fatti grandi e sua madre era morta. Anche Tizzie Dunn era morto e i Water erano tornati in Inghilterra. Tutto cambia. Ora anche lei stava per andarsene e lasciare la casa.
La casa! Si guardò attorno nella stanza passando in rassegna gli oggetti familiari che aveva spolverato una volta alla settimana per tanti anni, chiedendosi da dove poteva venire tutta quella polvere. Forse non li avrebbe più rivisti quegli oggetti di sempre dai quali non si sarebbe mai sognata di separarsi. Eppure in tutti quegli anni non le era riuscito di sapere il nome del prete la cui foto ingiallita era appesa alla parete proprio sopra l'harmonium rotto, accanto alla stampa colorata coi voti fatti alla Beata Margherita Maria Alacoque.
Era stato compagno di scuola di suo padre e ogni volta che questi mostrava la fotografia a un visitatore, accompagnava il gesto con una battuta casuale:
- Si trova a Melbourne, adesso.
Ora che anche lei aveva acconsentito ad andarsene, a lasciare la casa. Ma era giusto? Cercava di valutare ogni aspetto della faccenda. A casa sua avrebbe avuto comunque un tetto e un pezzo di pane; e la compagnia di coloro a cui era avvezza sin dalla nascita. Doveva sgobbare, questo è certo, sia a casa che a lavoro. Cosa avrebbero detto ai magazzini quando si fosse saputo che era fuggita con uno sconosciuto? L'avrebbero bollata per una pazza, probabilmente; e l'avrebbero rimpiazzata con un annuncio sul giornale. Miss Gavan sarebbe stata contenta. L'aveva sempre presa di punta, specie se c'era gente a sentire.
- Miss Hill, non vedete che ci sono delle signore che aspettano?
- Ma smuovetevi, Miss Hill, per piacere.
Non c'era certamente da piangerci a lasciare i magazzini. Ma nella nuova casa, in un paese lontano e sconosciuto, non sarebbe stato così. Sarebbe stata una donna maritata, sì, proprio lei, Eveline. La gente l'avrebbe trattata con rispetto. Non l'avrebbero trattata come era toccato a sua madre. Anche ora che aveva più di diciannove anni, temeva talora di subire la violenza paterna. E questo, lo sapeva bene, le aveva fatto venire le palpitazioni. Quando erano ancora piccoli, non se l'era mai presa con lei, come aveva fatto con Harry e con Ernest, perché era una ragazzina; ma poi aveva cominciato a minacciarla e a dirle che se non fosse stato per la memoria di sua madre gliele avrebbe suonate. E ora non c'era più nessuno a proteggerla. Ernest era morto e Harry, che lavorava come decoratore di chiese, era quasi sempre fuori da qualche parte del paese. E poi quelle eterne discussioni per i soldi il sabato sera avevano cominciato a sfinirla. Tutto quanto prendeva - sette scellini - lo metteva in famiglia e Harry mandava tutto quel che poteva, ma il guaio era cavarli a suo padre, i soldi. Lui non faceva che dirle che scialacquava il denaro, che non aveva cervello, che non intendeva darle i soldi guadagnati col sudore della fronte per vederli buttare dalla finestra, e anche di peggio le diceva, perché aveva sempre i nervi il sabato sera. Alla fine però glieli dava e le chiedeva se avrebbe comprato qualcosa per il pranzo della domenica. Così doveva precipitarsi in fretta e furia a fare la spesa, stringendo in mano la borsetta nera, mentre s'apriva un varco tra la folla a gomitate, per rincasare tardi stracarica di roba. Aveva il suo bel daffare a badare alla casa, a mandare a scuola i due fratelli minori che le erano stati affidati e far sì che avessero i loro pasti regolari. Un lavoro pesante, una vita dura, ma ora che s'apprestava a lasciarla non le sembrava tanto insopportabile.
Stava per sperimentare una vita diversa con Frank. Frank era veramente gentile, forte e generoso. Sarebbe partita con lui col bastimento della notte per diventare sua moglie e andare a stare a Buenos Aires nella casa che l'aspettava. Se la ricordava bene la prima volta che l'aveva visto, quando era a pensione in una casa della via maestra dove lei andava a far visita. Sembrava appena qualche settimana fa. Se ne stava al cancello, il berretto a visiera gettato all'indietro sulla nuca e i capelli che gli ricadevano sul volto abbronzato. Poi avevano fatto conoscenza. L'aspettava tutte le sere fuori dai grandi magazzini e l'accompagnava a casa. L'aveva portata anche a vedere La ragazza di Boemia e non le era sembrato vero starsene con lui a teatro in posti che non le erano abituali. Andava matto per la musica ed era capace anche di cantare. Lo sapevano tutti che si volevano bene e quando cantava la canzone della ragazza innamorata del marinaio, lei si sentiva amabilmente imbarazzata. La chiamava la sua bambolina, tanto per ridere. Da principio si era sentita lusingata all'idea di avere un corteggiatore, poi aveva cominciato a volergli bene. Le raccontava di paesi lontani e di come aveva iniziato da mozzo, a una sterlina al mese, su una nave della compagnia Allan che andava in Canada. Le recitava i nomi delle navi nelle quali era stato imbarcato e delle diverse mansioni. Aveva passato lo stretto di Magellano e così le narrava storie dei terribili abitanti della Patagonia. A Buenos Aires gli era andata bene, diceva, e in patria c'era tornato giusto per una vacanza. Suo padre, nemmeno a dirlo, aveva scoperto tutto e le aveva proibito di rivederlo.
- Li conosco, io, questi marinai! - aveva detto.
Un giorno lui aveva litigato con Frank e da allora s'erano dovuti incontrare di nascosto.
Nel viale s'addensava la sera. Il biancore delle due lettere che teneva in grembo si faceva indistinto. Una era per Harry e l'altra per il padre. Ernest era stato il suo prediletto, ma voleva bene anche a Harry. Aveva notato che suo padre era andato giù, di recente, e avrebbe sentito la sua mancanza. Talvolta sapeva essere carino anche lui. Non molto tempo prima, quando era rimasta a letto per un giorno ammalata, le aveva letto una storia di fantasmi e le aveva abbrustolito il pane sul fuoco. Un'altra volta, quando ancora la madre era viva, erano andati tutti quanti a far merenda sulla collina di Howth. Ricordava che suo padre s'era messo in testa il cappellino della mamma per far ridere i bambini.
Il tempo passava ma lei rimaneva seduta presso la finestra, la testa appoggiata sulle tendine respirando l'odore del cretonne polveroso. Sentiva le note di un organetto che provenivano giù dal viale. Lo conosceva quel motivo. Strano che venisse proprio quella sera a ricordarle la promessa fatta alla madre di tenere la famiglia unita sin quando le fosse stato possibile. Le tornò alla mente l'ultima notte della sua malattia; si rivide nella stanza buia, soffocante in fondo al corridoio mentre da fuori giungeva una triste canzone italiana. Avevano dato sei pence al suonatore perché se ne andasse. Ricordava che il padre era rientrato impettito nella camera della malata dicendo:
- Maledetti italiani! Proprio qui devono venire!
Mentre meditava, la penosa visione della vita trascorsa dalla madre tesseva un incantesimo malefico nel suo intimo; la sua era stata una vita di meschini sacrifici conclusasi nella follia. Tremò a riudire la voce della madre che ripeteva con demente ossessione:
"Derevan Seraun! Derevan Seraun!"
Balzò in piedi spinta da un terrore improvviso. Fuggire! Doveva fuggire! Frank l'avrebbe portata in salvo. Le avrebbe dato la vita e forse anche l'amore. Lei voleva vivere davvero. Perché avrebbe dovuto essere infelice? Aveva diritto anche lei alla felicità. Frank l'avrebbe presa tra le braccia, l'avrebbe stretta: l'avrebbe salvata.

Era in mezzo alla folla ondeggiante nella stazione di North Wall. Lui la teneva per mano; sapeva che lui le stava parlando, che le ripeteva in continuazione qualcosa circa la traversata. La stazione era gremita di soldati con i loro zaini scuri. Attraverso le ampie porte della tettoia intravide la massa nera del piroscafo con gli oblò illuminati ancorato accanto alla murata della banchina. Non rispose nulla. Si sentiva le guance pallide e fredde e in quel groviglio di disperazione pregava Dio che le facesse da guida, che le indicasse quale fosse il suo dovere. Il piroscafo gettò nella nebbia un lungo sibilo lamentoso. Se fosse partita, domani si sarebbe trovata in alto mare con Frank, diretta a Buenos Aires. Avevano già prenotato i posti. Come avrebbe potuto tirarsi indietro dopo tutto quello che aveva fatto per lei? La disperazione le provocò un senso di nausea; continuò a muovere le labbra pregando con fervore, in silenzio.
Una campana le risuonò sul cuore. Sentì che lui le prendeva la mano:
- Vieni!
Tutti i mari del mondo le si abbatterono sul cuore. Lui ce la trascinava dentro, la voleva affogare. S'avvinghiò con entrambe le mani alla ringhiera.
- Vieni!
No! No! No! Era impossibile. In un accesso di frenesia le sue mani strinsero le sbarre. Dal mezzo dei mari mandò un grido d'angoscia.
- Eveline! Evvy!
Si precipitò oltre i cancelli chiamandola perché lo seguisse. Gli urlarono di proseguire ma lui continuava a chiamarla. Allora lei gli mostrò il volto esangue, come quello di un animale spaurito. I suoi occhi non gli dettero il minimo segno d'amore o di addio o di riconoscimento.

Versi scritti poco lontani dalla mia casa - William Wordsworth




E' questo il primo giorno mite di marzo,
più fragrante di momento in momento,
col pettirosso che cinguetta in cima al larice
che sorge accanto alla nostra casa.

Aleggia nell'aria una benedizione
che sembra infondere un senso di gioia
agli alberi spogli, alle nude montagne
ed ai verdi campi erbosi.

Sorella mia! Ho un desiderio:
ora che la nostra colazione è terminata,
fai presto, lascia le faccende mattutine,
e vieni fuori a goderti il sole.

Edward verrà con te, e ti prego,
presto, metti il tuo abito silvestre,
e non portar libri, ché questo giorno
noi lo dedichiamo al riposo.

Nessuna tetra parvenza sarà legge
per il nostro vivente calendario:
da oggi, amica mia, data per noi
l'inizio dell'anno.

Amore, che ora ovunque rinasce,
migra furtivo di cuore in cuore,
dalla terra all'uomo, dall'uomo alla terra,
- E' questa l'ora dei sentimenti.

Ora un momento potrà darci di più
di cinquant'anni di ragionamenti;
le nostre menti succhieranno da ogni poro
lo spirito della stagione.

Poche tacite leggi si daranno i nostri cuori
cui prestare lunga obbedienza;
per l'anno a venire prenderemo
l'esempio da quest'oggi.

E dal beato potere che aleggia
d'intorno, quaggiù e su in cielo,
trarremo la misura delle anime nostre,
accordandole alla nota d'amore.

Orsù vieni, sorella mia! Vieni, ti prego,
presto, mettiti il tuo abito silvestre,
e non portar libri, ché questo giorno
noi lo dedicheremo al riposo.

***

It is the first mild day of March:
Each minute sweeter than before,
The red-breast sings from the tall larch
That stands beside our door.

There is a blessing in the air,
Which seems a sense of joy to yeld
To the bare trees, and mountains bare,
And grass in the green field.

My Sister! ('tis a wish of mine)
Now that our morning meal is done,
Make haste, your morning task resign;
Come forth and feel the sun.

Edward will come with you, and pray,
Put on with speed your woodland dress,
And bring no book, for this one day
We'll give to idelness.

No joyless forms shall regulate
Our living Calendar:
We from to-day, my friend, will date
The opening of the year.

Love, now an universal birth,
From heart to heart is stealing,
From earth to man, from man to earth,
- It is the hour of feeling.

One moment now may give us more
Than fifty years of reason;
Our minds shall drink at every pore
The spirit of the season.

Some silent laws our hearts may make,
Which they shall long obey;
We for the year to come may take
Our temper for to-day.

And from the blessed power that rolls
About, below, above;
We'll frame the measure of our souls,
They shall be turned to love.

Then come, my sister! come, I pray,
With speed put on your woodland dress,
And bring no book; for this one day
We'll give to idelness.

L'ira del dio Telipinu - favola hittita

Telipinu era il dio della fertilità e dell'abbondanza sulla terra. Si doveva solo a lui se gli alberi e le piante erano verdi, se i campi davano tanti buoni frutti, se la neve si scioglieva e il tempo tornava caldo.
Da qualche tempo Telipinu era molto arrabbiato: ce l'aveva con gli uomini che diventavano ogni giorno più cattivi, egoisti, invidiosi e non si curavano degli dei come lui. Quando Telipinu si arrabbiava (e questa volta arrabbiato lo era davvero), c'era da aver paura.
- Punirò gli uomini, - disse il dio furente - così vedranno chi sono io!
E fu di parola, ma per la forte arrabbiatura infilò lo stivale destro al piede sinistro e lo stivale sinistro al piede destro.
In poco tempo il volto della terra cambiò radicalmente. Sembrava che un'altra terra fosse sorta al posto della precedente. I campi non verdeggiavano, i fiumi non avevano acqua limpida, la neve non si scioglieva più, il cielo era sempre buio.
Gli uomini erano disperati, pur sapendo che il dio della fertilità aveva pazientato anche troppo. Decisero di chiudersi nelle loro case e non uscirne più; gli animali restarono nelle stalle senza più vedere la luce del sole; per il freddo i camini non venivano più spenti. Dov'era la bella terra di un tempo?
Tutti gli altri dei si accorsero presto che qualcosa non andava sulla terra e non ci volle molto perché capissero che la colpa era del dio della fertilità. Preoccupato della situazione, il re degli dei celesti raccolse tutti in assemblea e parlò in tono molto serio:
- Mio figlio, il dio Telipinu, è certamente arrabbiato con gli uomini e ha deciso di punirli. Ha ragione, ma la terra ha bisogno di prosperare. Cercatelo dappertutto!
E gli dei si diedero a cercare il fratello scomparso, ma per quanto percorressero la terra in lungo e in largo, di Telipinu non fu trovata traccia. Il re degli dei ne fu contrariato e, riuniti nuovamente tutti a concilio, gridò:
- Che venga l'aquila dalla vista potente e cerchi ovunque mio figlio Telipinu!
L'aquila fu chiamata e mandata in giro per la terra. L'animale dalla vista acuta scrutò dappertutto, i colli, i monti, i laghi, i fiumi, i mari: in nessun luogo si scorgeva traccia di Telipinu.
All'aquila non restò che raccontare il suo insuccesso, anche se temeva l'ira del re degli dei che disse:
- Questa storia deve avere fine. La terra sta morendo e, se gli animali scompariranno e i campi non produrranno frutti, anche noi dei non riceveremo i doni degli uomini.
Tutti compresero che non c'era tempo da perdere. Fu proposto di dare incarico al violento dio dei venti di cercare Telipinu.
La regina degli dei, sua madre, gli disse:
- Tu solo puoi fare il miracolo, sei il dio più forte ed impetuoso. Va', figlio mio, percorri la terra in lungo e in largo, trova e riporta qui tuo fratello, il dio della fertilità. Nulla resisterà dinanzi alla tua furia. Va' e torna presto!
- Sì, madre, - rispose il dio dei venti - andrò e farò come mi comandi.
Il dio dei venti si lanciò con forza. Setacciò ogni angolo, poi pensò di recarsi nella città in cui Telipinu solitamente viveva. Non lo trovò nemmeno in casa sua e capi che era tempo di tornare dai suoi, anche se a mani vuote.
Al vederlo sconfitto il re degli dei e sua moglie ebbero un moto di stizza, poi convocarono l'umile ape per attribuirle il difficile incarico:
- Vola, piccola ape, - le disse il re degli dei - e raggiungi Telipinu. Quando lo troverai, dovrai pungergli le mani e i piedi. Solo allora ti sarà possibile portarlo da noi.
- Farò come volete - rispose l'umile ape muovendosi.
- Un momento, - urlò il dio dei venti - come potete sperare che un esserino così minuscolo faccia ciò che non è riuscito a un dio come me?
- E' meglio che tu stia zitto - disse in tono deciso la regina degli dei. - Sono sicura che l'ape farà meglio di te.
Il re dei venti tacque, dopo aver borbottato a lungo.
L'ape partì e sorvolò i colli, i monti, i laghi, i fiumi. Sembrava che dovesse fallire come il dio dei venti, quando vide Telipinu addormentato in una valle. Si ricordò di pungergli i piedi e le mani, facendo svegliare il potente dio che fu preso da una tremenda collera.
- Perchè mi hai disturbato? - gridò all'ape, fuori di sé - Non sai che non si disturba un dio che dorme?
La terra tremò alla rabbia di Telipinu: il cielo si oscurò, i fiumi si ghiacciarono del tutto, la natura sembrò per sempre morta.
L'ape allora tornò dalla regina degli dei a cui raccontò ogni cosa.
- Non potrò mai trasportare da me un dio immenso e pesante come Telipinu. Ci vuole molta prudenza!
E l'ape si avviò con l'aquila dalle grandi ali. L'attesa fu lunga per tutti gli dei. Finalmente videro lontano lontano un punto nero che diventava sempre più grande: era il dio Telipinu sulle grandi ali dell'aquila, e insieme la piccola ape. Fulmini, tuoni e tumulto accompagnavano l'arrivo del dio adirato.
A Telipinu furono offerti nettare, panna, miele e frutta. Una dolce voce, intanto, cantava:

Soffice sii come la panna, dolce come il miele profumato.
Allontana la collera dal cuore tuo adirato!

Le offerte fattegli e la formula magica che pioveva dall'alto ebbero il potere di rendere più buono il dio della fertilità. Egli si addolciva di momento in momento. L'ira scendeva sempre di più.
Dopo un po', Telipinu sedeva nel mezzo degli dei celesti, felice e sorridente.
Intanto, sulla terra tornava a fiorire la natura, i fiumi non erano quasi più ghiacciati, le valli verdeggiavano, i campi erano pronti. Tutto era di nuovo come prima.

mercoledì 17 ottobre 2012

La tempesta di neve - Aleksandr S. Puškin




Sul finir dell'anno 1811, nell'epoca per noi memorabile, viveva nel suo possedimento di Nieneradovo il buon Gavrila Gavrilovič R***. Egli era celebrato in tutto il circondario per l'ospitalità e la cordialità; i vicini ogni momento andavan da lui a mangiare, bere e giocar di cinque copechi a boston con sua moglie, Praskovia Petrovna, e taluni per vedere la loro figliola, Maria Gavrilovna, snella, pallida fanciulla diciassettenne. Ella passava per un ricco partito e molti la riserbavano per se o per i figli.
Maria Gavrilovna era stata educata sui romanzi francesi e, per conseguenza, era innamorata. L'oggetto da lei prescelto era un povero alfiere dell'esercito, che si trovava in licenza nel proprio villaggio. Va da sé che il giovane ardeva di egual passione e che i genitori della sua amata, avendo notato la loro scambievole propensione, avevan proibito alla figlia anche di pensare a lui, e lui lo accoglievano peggio di un assessore in ritiro.
I nostri innamorati erano in corrispondenza, e ogni giorno si vedevano da solo a sola in un boschetto di pini o presso una vecchia cappella. Là si giuravan l'un l'altra eterno amore, si dolevan della sorte e facevano progetti diversi. Scrivendosi e discorrendo in tal modo, essi (il che è naturalissimo) pervennero al seguente ragionamento: se non possiamo respirare l'un senza l'altra, e il volere dei crudeli genitori ostacola la nostra felicità, non potremmo noi far senza di esso? S'intende che questa idea felice venne prima in capo al giovanotto, e che piacque moltissimo alla romanzesca interpretazione di Maria Gavrilovna.
Venne l'inverno e interruppe i loro convegni; ma tanto più viva si fece la corrispondenza. Vladimir Nikolaevič in ogni lettera la supplicava di abbandonarsi a lui, di sposarsi segretamente, nascondersi per un po' di tempo, gettarsi poi ai piedi dei genitori, i quali, certo, sarebbero stati al fine commossi dall'eroica costanza e dall'infelicità degli amanti, e avrebbero detto loro senza fallo: "Figlioli, venite tra le nostre braccia".
Maria Gavrilovna esitò lungamente; una quantità di progetti di fuga furono respinti. Infine ella acconsentì: il giorno fissato lei non doveva cenare, doveva ritirarsi in camera sua col pretesto del mal di capo. La sua cameriera era della congiura; tutt'e due dovevano uscire in giardino dalla scaletta posteriore, dietro il giardino trovare una slitta pronta, salirvi e andare a cinque verste da Niedarodovo, nella borgata di Zadrino, direttamente in chiesa, ove Vladimir già doveva essere ad aspettarle.
Alla vigilia del giorno decisivo Maria Gavrilovna non dormì tutta la notte; preparò la sua roba, annodò involti di biancheria e vestiario, scrisse una lunga lettera a una signorina sentimentale, amica sua, un'altra ai suoi genitori. Ella diceva loro addio con le più commoventi espressioni, scusava il suo passo con l'invincibile forza della passione e finiva col dire che avrebbe considerato come il più felice momento della sua vita quello in cui le fosse stato permesso di gettarsi ai piedi dei suoi carissimo genitori. Suggellate le due lettere con un sigillo di Tula, sul quale erano raffigurati due cuori fiammeggianti con una conveniente iscrizione, si buttò sul letto proprio davanti all'alba e si assopì; ma anche lì orribili sogni la svegliavano ad ogni istante. Ora le sembrava che, nell'attimo stesso in cui saliva in slitta per andare a sposarsi, il padre la fermasse e con tormentosa celerità la trascinasse sulla neve e la gettasse in un buio sotterraneo senza fondo... e lei volava a testa in giù con indicibile struggicuore; ora vedeva Vladimir, steso sull'erba, pallido, insanguinato. Egli, morendo, la pregava con voce acuta di affrettarsi a sposarlo... altre informi, assurde visioni ondeggiavano davanti a lei una dopo l'altra. Finalmente ella si alzò, più pallida del consueto e con un dolor di capo non simulato. Padre e madre notarono la sua inquietudine; la loro tenera premura e le incessanti domande: "Che hai, Maša? Non sei malata, Maša?", le straziavano il cuore. Ella si sforzava di calmarli, di parere allegra, e non poteva. Venne la sera. Il pensiero che ormai per l'ultima volta passava la giornata in mezzo alla sua famiglia, le stringeva il cuore. Ella era appena viva; in segreto diceva addio a tutte le persone, a tutti gli oggetti che la circondavano. Servirono la cena; il cuore si mise a batterle violentemente. Con voce tremante dichiarò che non aveva voglia di cenare, e prese ad accomiatarsi dal padre e dalla madre. Essi la baciarono e, al solito, la benedissero; per poco ella non diede in pianto. Giunta in camera sua, si gettò su una poltrona e si sciolse in lacrime. La ragazza la esortò a calmarsi e rinfrancarsi. Tutto era pronto. Entro mezz'ora Maša doveva lasciare per sempre la casa paterna, la sua stanza, la quieta vita di fanciulla... Fuori v'era la tempesta di neve; il vento ululava, le imposte tremavano e sbattevano; tutto le pareva minaccia e triste presagio. In breve nella casa tutto si chetò e si assopì. Maša si avvolse con lo scialle, indossò una veste pesante, prese tra le mani una cassettina, e uscì sul terrazzino posteriore. La domestica portò dietro a lei due involti. Scesero in giardino. La tempesta non si calmava; il vento soffiava incontro, come sforzandosi di arrestare la giovane colpevole. A stento raggiunsero l'estremità del giardino. Sulla strada la slitta le aspettava. I cavalli, intirizziti, non stavano fermi; il cocchiere di Vladimir andava e veniva davanti alle stanghe, trattenendo gli impetuosi. Egli aiutò la signorina e la ragazza ad accomodarsi e a collocare gli involti e la cassetta, raccolse le redini e i cavalli partiron di volo. Affidata la signorina alle cure del destino e alla maestria del cocchiere Terioska, volgiamoci al nostro giovane innamorato.
Vladimir era stato in moto tutto il giorno. La mattina era andato dal prete di Zadrino; a fatica si era accordato con lui; poi era andato a cercare i testimoni fra i proprietari vicini. Il primo a cui si presentò, la quarantenne cornetta in ritiro, Dravin, acconsentì con piacere. Quell'avventura, assicurava, gli rammentava i vecchi tempi e le gherminelle degli ussari. Persuase Vladimir a pranzar da lui e gli accertò che per gli altri due testimoni non ci sarebbe stata difficoltà. Infatti, subito dopo pranzo comparvero l'agrimensore Smidt, baffi e speroni, e il figlio del capitano di polizia, un ragazzo sui sedici anni, da poco entrato negli ulani. Essi non solo accettarono la proposta di Vladimir, ma gli giurarono perfino di essere pronti a dare la vita per lui. Vladimir li abbracciò con effusione e andò a casa a prepararsi.
Annottava già da un pezzo. Egli mandò il suo fidato Terioska a Nienarodovo con la sua troika e con istruzioni particolareggiate, esatte; e per se ordinò di attaccare la slitta piccola a un cavallo, e da solo, senza cocchiere, si avviò a Zadrino ove di lì a un paio d'ore doveva giungere anche Maria Gavrilovna. La strada gli era nota e di cammino erano in tutto venti minuti.
Ma Vladimir era appena uscito dalla cinta nella campagna quando si levò il vento e si formò un tal turbine di neve ch'egli non vide più nulla. In un minuto la strada fu coperta; i dintorni sparirono in una caligine torbida e giallastra, attraverso cui volavano bianchi fiocchi di neve; il cielo si fuse con la terra; Vladimir si trovò in un campo e invano voleva nuovamente raggiungere la strada; il cavallo avanzava alla cieca e a ogni istante o saliva su un cumulo di neve o sprofondava in una buca; la slitta si rovesciava di continuo. Vladimir cercava solo di non perdere la giusta direzione. Ma gli pareva che fosse ormai trascorsa oltre mezz'ora, e non era ancora arrivato al boschetto di Zadrino. Passarono ancora circa dieci minuti: il boschetto non si vedeva tuttavia. Vladimir andava per una campagna intersecata da profondi borri. La tempesta di neve non cessava, il cielo non schiariva. Il cavallo cominciava ad essere stanco, e lui grondava di sudore, nonostante fosse in tutti i momenti nella neve fino alla cintola.
Finalmente vide che non andava da quella parte. Vladimir si fermò; cominciò a rammentare, a considerare e si convinse che doveva prendere a destra. Andò a destra. Il suo cavallo procedeva a stento. Era in cammino da più di un'ora. Zadrino non doveva essere lontano. Ma egli andava, andava e i campi non avevano fine. Sempre cumuli di neve e burroni; la slitta si ribaltava a ogni istante, a ogni istante lui la risollevava. Il tempo scorreva; Vladimir cominciava a inquietarsi.
Infine da una parte qualcosa prese a nereggiare. Vladimir piegò di là. Approssimandosi, scorse un boschetto. Grazie a Dio, pensò, ora è vicino. Fiancheggiò il boschetto, sperando di capitar subito sulla nota strada o di girare attorno al bosco; Zadrino si trovava subito là dietro. In breve scoperse la strada ed entrò nel buio degli alberi, spogliati dall'inverno. Il vento non vi poteva infuriare: la strada era piana; il cavallo si rinfrancò e Vladimir si tranquillizzò.
Ma egli andava, andava e Zadrino non si vedeva; il bosco non aveva fine. Vladimir con terrore si avvide di essere entrato in un bosco ignoto. La disperazione si impadronì di lui. Sferzò il cavallo; la povera bestia volle prendere il trotto, ma presto fu stanca e dopo un quarto d'ora si mise al passo, nonostante tutti gli sforzi del disgraziato Vladimir.
A poco a poco gli alberi cominciarono a diradare e Vladimir uscì dal bosco; Zadrino non si vedeva. Doveva essere circa mezzanotte. Lacrime sgorgarono dai suoi occhi; era andato alla ventura. Il tempo si era calmato, le nubi si disperdevano; davanti a lui si stendeva una pianura, coperta d'un bianco tappeto ondulato. La notte era abbastanza chiara. Egli scorse non lontano un villaggetto composto da quattro o cinque case. Vladimir vi si diresse. Presso la prima capanna saltò giù dalla slitta, corse a una finestra e prese a bussare. Dopo qualche minuto lo scuretto di legno si alzò, e un vecchio sporse la sua barba bianca.
- Che vi occorre?
- E' lontano Zadrino?
- Zadrino, se è lontano?
- Sì, sì! E' lontano?
- Non lontano: saranno una decina di verste.
A questa risposta Vladimir si afferrò per i capelli e rimase immobile, come un uomo condannato a morte.
- E di dove sei tu? - continuò il vecchio. Vladimir non era d'umore da rispondere a domande.
- Puoi tu, vecchio - disse, - procurarmi i cavalli per andare a Zadrino?
- Che cavalli abbiamo noi? - rispose il contadino.
- Ma non posso prendere anche solo una guida? Pagherò quanto vorrà.
- Aspetta - disse il vecchio, abbassando lo scuretto, - ti manderò mio figlio; lui ti condurrà.
Vladimir si mise ad aspettare. Non era passato mezzo minuto che già aveva ricominciato a bussare. L'imposta si alzò, la barba comparve.
- Che cosa vuoi?
- Ebbene, tuo figlio?
- Ora uscirà, si sta calzando. Che sei intirizzito? Entra a scaldarti.
- Grazie; manda presto il figlio.
Il portone cigolò; un giovanotto uscì con un randello e andò avanti, ora indicando, ora cercando la strada, ingombra di mucchi di neve.
- Che ore sono? - gli domandò Vladimir.
- Presto farà giorno - rispose il giovane contadino. Vladimir non disse più parola.
Cantavano i galli e faceva ormai chiaro, quando giunsero a Zadrino. La chiesa era chiusa. Vladimir pagò la guida e andò in cortile dal sacerdote. Nella corte la sua troika non c'era. Qual notizia lo aspettava!
Ma torniamo ai buoni proprietari di Nienaradovo e vediamo che accadde a casa loro.
Ma nulla.
I vecchi si sono svegliati e sono passati in salotto, Gavrila Gavrilovič in berretto da notte e giacca di baietta, Praskovia Petrovna in vestaglia ovattata. Hanno portato il samovar, e Gavrila Gavrilovič a mandato una ragazzuccia a saper da Maria Gavrilovna come va la sua salute e come ha passato la notte. La ragazzuccia è tornata annunciando che la signorina ha avuto una cattiva notte, ma che ora si sente meglio e che verrà subito in salotto. Infatti la porta si apre e Maria Gavrilovna si accosta a dir buongiorno a babbo e mamma.
- Come va la tua testa, Maša? - domandò Gavrila Gavrilovič.
- Meglio, babbo - rispose Maša.
- Certamente, Maša, ieri ti fece male l'odore del carbone -
- Può darsi, mamma - rispose Maša.
La giornata passò felicemente, ma nella notte Maša si sentì indisposta. Mandarono in città a chiamare il medico. Arrivò verso sera e trovò l'ammalata in delirio. Si dichiarò un violento febbrone e la povera inferma fu per due settimane sull'orlo della tomba.
Nessuno in casa sapeva della progettata fuga. Le lettere da lei scritte alla vigilia erano state bruciate; la sua cameriera non aveva detto nulla a nessuno, paventando l'ira dei padroni. Il prete, la cornetta in ritiro, il baffuto agrimensore e il piccolo ulano furono discreti, e non per nulla. Il cocchiere Terioska non diceva mai niente di troppo, neppure da brillo. In tal modo il segreto fu conservato meglio che da una mezza dozzina di congiurati. Ma la stessa Maria Gavrilovna, nell'incessante delirio, disse il suo segreto. Le sue parole eran però tanto incoerenti, che la madre, la quale non si scostava dal suo letto, poté da esse solo capire che la figlia era follemente innamorata di Vladimir Nikolaevič e che, verosimilmente, l'amore era la causa del suo male. Ella si consigliò col proprio marito, con alcuni vicini, e infine tutti decisero unanimi che, si vede, tale era il destino di Maria Gavrilovna, che alla propria sorte non si sfugge, che povertà non è vizio, che non con la ricchezza si vive, ma con un uomo, e simili cose. Le sentenze morali riescono mirabilmente utili nei casi in cui da parte nostra poco possiamo inventare a nostra giustificazione.
Intanto la signorina cominciò a rimettersi. Vladimir da un bel pezzo non lo si vedeva in casa di Gavrila Gavrilovič. Era stato impaurito dall'accoglienza consueta. Risolsero di mandare a cercarlo e di annunciargli l'inaspettata fortuna: il consenso al matrimonio. Ma quale fu lo stupore dei proprietari di Nienaradovo quando, in risposta al loro invito, ricevettero da lui una lettera seminsensata! Egli dichiarava che non avrebbe mai più messo piede in casa loro, e pregava di dimenticare un infelice per il quale unica speranza restava la morte. Qualche giorno dopo seppero che Vladimir era partito per rientrare nell'esercito. Ciò accadde nel 1812.
Per lungo tempo non osarono darne notizia a Maria convalescente. Ella non menzionava mai Vladimir. Già alcuni mesi dopo, avendo trovato il suo nome nel novero di quelli che s'erano distinti ed erano stati gravemente feriti a Borodino, svenne e temettero che le tornasse il febbrone. Grazie a Dio, però, il delirio non ebbe conseguenze.
Un altro dolore la provò: Gavrila Gavrilovič spirò lasciandola erede di tutto il suo avere. Ma l'eredità non la consolò; ella dividette sinceramente l'afflizione della povera Praskovia Petrovna, giurava di non separarsi mai da lei; le due lasciarono Nienaradovo, sito di tristi ricordi, e andarono ad abitare la prprietà di ***.
I pretendenti rotavano anche qui intorno alla graziosa e ricca fanciulla; ma ella non dava ad alcuno la pur minima speranza. La madre a volte la esortava a scegliersi un amico; Maria Gavrilovna scoteva il capo e si faceva pensierosa. Vladimir non era più; era morto a Mosca, alla vigilia dell'entrata dei francesi. La sua memoria pareva sacra per Maša; almeno ella conservava tutto ciò che poteva ricordarlo: i libri letti un tempo da lui, i suoi disegni, le note e i versi da lui trascritti per lei. I vicini, venuti a sapere ogni cosa, si stupivano della sua costanza e aspettavano con curiosità l'eroe che avrebbe dovuto alfine trionfare della mesta fedeltà di quella vergine Artemide.
Frattanto la guerra era finita gloriosamente. I nostri reggimenti tornavan d'oltre frontiera. La gente correva lor incontro. La musica suonava il canto dei vinti: Vive Henri-Quatre, valzer tirolesi e arie della "Gioconda". Gli ufficiali, partiti in campagna quasi giovinetti, rientravano, fatti uomini dalla guerra, coperti di decorazioni. I soldati conversavano allegri tra loro, mischiando a ogni istante nel discorso parole tedesche e francesi. Tempi indimenticabili! Tempi di gloria e di entusiasmo! Come batteva forte il cuore russo alla parola "patria"! Com'erano dolci le lacrime del rivedersi! Con che accordo riunivamo i sentimenti dell'orgoglio nazionale e dell'amore al sovrano! E per lui, qual minuto!
Le donne, le donne russe furono allora incomparabili. La loro abituale freddezza era scomparsa. Il loro entusiasmo era davvero inebriante, quando, incontrando i vincitori, gridavano "Urrà!"

e in aria le cuffiette gettavano...

Chi degli ufficiali d'allora non riconosce che alla donna russa andò debitore della migliore, più preziosa ricompensa?...
In quegli splendidi tempi Maria Gavrilovna viveva con la madre nella provincia di *** e non vide come le due capitali festeggiavano il ritorno delle truppe. Ma nei distretti e nei villaggi l'entusiasmo generale era forse ancor più vivo. La comparsa in quei luoghi d'un ufficiale era per quest'ultimo un vero trionfo, e un innamorato in marsina stava male vicino a lui.
Già dicemmo che, nonostante la sua freddezza, Maria Gavrilovna era sempre come prima circondata da pretendenti. Ma tutti dovettero ritirarsi, quando comparve nel suo castello il colonnello degli ussari ferito Burmin, col nastrino di San Giorgio all'occhiello e con un pallore interessante, come dicevano le signorine d'allora. Aveva circa ventisei anni. Era venuto in licenza nei suoi possedimenti, che si trovavano vicino alla campagna di Maria Gavrilovna. Maria Gavrilovna lo preferiva a tutti. In sua presenza la consueta malinconia di lei si animava. Non si poteva dire che civettasse con lui; ma un poeta, notando il suo comportamento, avrebbe detto:

S'amor non è, che dunque è?...

Burmin era, in realtà, un graziosissimo giovane. Aveva precisamente quello spirito che piace alle donne: lo spirito d'opportunità e d'osservazione, senza pretese d'alcun genere e spensieratamente canzonatorio. Il suo contegno con Maria Gavrilovna era semplice e franco; ma, qualunque cosa ella dicesse o facesse, l'anima e gli sguardi di lui la seguivano.
Egli pareva d'indole quieta e modesta, ma le voci assicuravano che un tempo era stato un terribile rompicollo e ciò non gli noceva nell'opinione di Maria Gavrilovna, la quale (come tutte le giovani signore in generale) scusava volentieri le monellerie che denotavano audacia e focosità di carattere.
Ma più di tutto... (più della sua tenerezza, più della gradevole conversazione, più dell'interessante pallore, più del braccio fasciato) il silenzio del giovane ussaro più di tutto eccitava la sua curiosità e la sua immaginazione. Ella non poteva non riconoscere che le piaceva molto; probabilmente anche lui, con la sua intelligenza ed esperienza, aveva ormai potuto notare che ella lo prediligeva; come mai finora non l'aveva visto ai suoi piedi e non aveva sentito ancora la sua confessione? Che cosa lo tratteneva? La timidezza, inseparabile dall'amor vero, orgoglio, o civetteria di scaltro vagheggino? Ciò era per lei un enigma. Dopo aver pensato per benino, concluse che la timidezza n'era l'unica ragione e risolse di incoraggiarlo con maggiori attenzioni e, secondo i casi, perfino con la tenerezza. Apparecchiava lo scioglimento più imprevisto e con impazienza attendeva il momento della romantica dichiarazione. Un segreto, di qualunque specie sia, è sempre grave a un cuore femminile. Le operazioni militari di lei ebbero l'esito desiderato: almeno, Burmin si era fatto così pensoso, e i suoi occhi neri con tal fuoco si fermavano su Maria Gavrilovna, che il minuto decisivo pareva ormai prossimo. I vicini parlavan di nozze come di cosa già fatta e la buona Praskovia Petrovna si allietava che sua figlia si fosse al fine trovato un degno sposo.
La vecchietta sedeva un giorno sola in salotto, facendo il grande solitario, quando Burmin entrò nella stanza e subito s'informò di Maria Gavrilovna.
- E' in giardino, - rispose la vecchietta - andate da lei e io vi aspetterò qui.
Burmin uscì e la vecchietta si fece il segno della croce e pensò: "Chi sa che la cosa non si concluda oggi!".
Burmin trovò Maria Gavrilovna presso il laghetto, sotto un salice, con un libro in mano e in veste bianca, vera eroina di romanzo. Dopo le prime domande, Maria Gavrilovna a bella posta lasciò cadere la conversazione, accrescendo in tal modo il vicendevole imbarazzo, al quale non era possibile sottrarsi se non con un'improvvisa e risoluta spiegazione. E così accadde: Burmin, sentendo la difficoltà della sua posizione, dichiarò che cercava da un pezzo l'occasione di aprirle il suo cuore, e chiese un minuto di attenzione. Maria Gavrilovna chiuse il libro e chinò gli occhi in segno di assenso.
- Io vi amo, - disse Burmin - vi amo pazzamente...- (Maria Gavrilovna arrossì e abbassò ancor più il capo) - Ho agito imprudentemente abbandonandomi a una cara consuetudine, alla consuetudine di vedervi e sentirvi ogni giorno... - (Maria Gavrilovna rammentò la prima lettera di Saint-Preux). - Ormai è tardi per oppormi alla mia sorte; il vostro ricordo, la vostra gentile, incomparabile immagine sarà da oggi il tormento e la consolazione della mia vita;ma ancora mi resta da compiere un penoso dovere, da svelarvi un orribile segreto e porre tra noi un'insormontabile barriera...
- Essa è sempre esistita, - interruppe con vivacità Maria Gavrilovna, - non avrei mai potuto essere vostra moglie...
- Lo so, - le rispose egli piano - so che un tempo amaste; ma la morte e tre anni di pianti... Buona, gentile Maria Gavrilovna! Non cercate di privarmi dell'ultimo conforto: il pensiero che avreste acconsentito a fare la mia felicità, se...
- Tacete, per amor di Dio, tacete. Mi torturate.
- Sì, lo so, lo sento che sareste stata mia, ma io sono la creatura più sventurata... io sono sposato!
Maria Gavrilovna lo guardò con meraviglia.
- Sono sposato, - continuò Burmin - è ormai il quarto anno che lo sono, e non so chi è mia moglie, e dov'è e se dovrò vederla un giorno!
- Che dite? - esclamò Maria Gavrilovna - Com'è strano! Continuate; racconterò dopo... ma continuate, fatemi la grazia.
- Al principio del 1812, - disse Burmin - mi affrettavo verso Vilna, dove si trovava il nostro reggimento. Una volta arrivai a una stazione di posta a sera tarda, e stavo per ordinar di attaccare al più presto i cavalli, quando d'un tratto si levò una tremenda tempesta di neve, e il maestro di posta e i postiglioni mi consigliarono di aspettare. Diedi loro retta, ma un'inspiegabile inquietudine s'impadronì di me; pareva che qualcuno di continuo mi spingesse. Intanto la bufera non si calmava; non pazientai, diedi nuovamente ordine di attaccare e di partire in piena tempesta. Al postiglione venne l'idea di prendere per il fiume, ciò che doveva abbreviarci il cammino di tre verste. Le rive erano ingombre; il postiglione passò il punto dove si tornava alla strada, e in tal modo ci trovammo in un sito sconosciuto. La tempesta non si placava; vidi un fuocherello e ordinai di andare lì. Arrivammo in un villaggio; nella chiesa di legno vi era luce. La chiesa era aperta; dietro il recinto stavano alcune slitte; per il sagrato camminava gente. "Qua! qua!" gridarono varie voci. Ordinai al postiglione di accostarsi. "Misericordia, dove ti sei attardato?", mi disse qualcuno, "la sposa è svenuta; il prete non sa che fare; eravamo sul punto di andarcene indietro. Scendi giù, presto!" Io in silenzio saltai fuori dalla slitta ed entrai nella chiesa, debolmente rischiarata da due o tre candele. Una fanciulla sedeva a un banco in un angolo scuro della chiesa; un'altra le stropicciava le tempie. "Sia lodato Dio", disse questa, "finalmente siete giunto. Per poco non avete fatto morire la signorina". Un vecchio sacerdote mi si accostò con la domanda: "Ordinate di cominciare?". "Cominciate, cominciate, padre", risposi distrattamente. Sollevarono la fanciulla. Mi parve bellina... Un'incomprensibile, imperdonabile leggerezza... mi misi accanto a lei davanti al leggio; il sacerdote andava di fretta; tre uomini e la cameriera sostenevano la sposa e si affaccendavano solo intorno a lei. Ci sposarono. "Baciatevi", ci dissero. Mia moglie mi volse il suo pallido viso. Volevo baciarla... Ella gridò: "Ah, non è lui, non è lui!", e cadde priva di sensi. I testimoni fissarono su di me gli occhi spaventati. Io mi voltai, uscii dalla chiesa senza alcun impedimento, mi gettai nella kibitka e gridai: "Andiamo!".
- Dio mio! - gridò Maria Gavrilovna - E non sapete che ne è stato della vostra povera moglie?
- Non so, - rispose Burmin - non so come si chiami il villaggio dove mi sposai; non ricordo da che stazione di posta fossi partito. A quel tempo davo così poca importanza alla mia colpevole gherminella che, partito dalla chiesa, mi addormentai e mi destai la mattina del giorno dopo, ormai alla terza stazione. Il servo che era allora con me morì nella campagna, cosicché non ho neppur la speranza di ritrovare colei di cui mi feci beffa così crudelmente e che ora è così crudelmente vendicata.
- Dio mio, Dio mio! - disse Maria Gavrilovna, afferrandogli la mano - eravate dunque voi! E non mi riconoscete?
Burmin impallidì... e si gettò ai suoi piedi.

martedì 16 ottobre 2012

Benedizione - Charles Baudelaire




Quando, per un decreto dei supremi poteri
fra gli uomini annoiati il Poeta discende,
sua madre, in preda al panico e gonfia d'improperi,
a Iddio che la commisera i chiusi pugni tende:

"Ah! mi fossi sgravata d'una covata d'aspidi,
piuttosto che nutrire in me simile scherno!
Maledetta la notte dagli effimeri brividi,
quando accolsi nel ventre il mio castigo eterno!

Poiché tu m'hai, Signore, fra le donne dannato
a sucitar l'orrore di un infelice sposo,
e questo contraffatto essere non m'è dato
buttar nel fuoco, come un biglietto amoroso,

stornerò l'odio tuo che su me s'accanì
sul fatale strumento dei tuoi progetti infami,
e torcerò quest'albero miserevole sì
da seccarne i boccioli velenosi sui rami!"

Così lei, ringoiando le bave acri dell'ira,
senza per nulla intendere i sovrumani editti,
infondo alla Geenna a erigere cospira
i roghi consacrati ai materni delitti.

Frattanto, ebbro di sole, sotto l'ala invisibile
d'un Angelo, il bambino reietto s'incammina,
e vede le bevande mutarglisi ed i cibi
in nettare vermiglio e in ambrosia divina.

Ride ai venti, le voci delle nubi raccoglie,
e s'esalta, cantando, della croce che porta,
giocando come un passero che vola fra le foglie:
ne singhiozza lo Spirito, ch'è sua mistica scorta.

Quanti vorrebbe amare, lo guatan con spavento;
oppure, innanzi a tanta mansuetudine prodi,
gareggiano a cavargli dalle labbra un lamento,
e sul suo corpo provano mille efferati modi.

Fin nel pane e nel vino che avvicina alla bocca
sputi e cenere intridono nelle più sozze forme;
storcono untuosi il naso da ogni cosa che tocca;
e si fanno una colpa di seguitarne l'orme.

La sua donna a gran voce va gridando nel foro:
"Poiché sembro ai suoi occhi così bella, e mi crede
degna d'adorazione, vo' rivestirmi d'oro,
come gli antichi idoli, tutta, da capo a piede.

E di nardo, di mirra, d'olibano pretendo
satollarmi, di carni, di liquori, d'inchini,
per sapere se posso usurpare ridendo
in un cuor che m'ammira gli attributi divini.

Quando poi sarò stanca di queste empie follie,
sopra gli poserò la magra e forte mano,
e con unghie affilate come unghie d'arpie
mi scaverò la strada fino al suo cuore umano.

Come un uccello implume che palpita e che guizza
quel suo purpureo cuore gli strapperò dal petto
e scagliandolo a terra, per disdegnosa bizza,
ne sfamerò il mio levriero prediletto!"

Verso il cielo, ove scorge un trono d'oro e luci,
leva, placido e pio, il Poeta le braccia,
e i maestosi lampi del suo spirito lucido
gli celano la vista dell'orda che minaccia:

"Sia lode a te, Signore, che dai la sofferenza
come un sublime farmaco delle nostre viltà,
e come la migliore e la più pura essenza,
ai forti preannuncio di sante voluttà!

Io so che un seggio in cielo tu conservi al poeta
fra le felici schiere delle sante Legioni,
e lo inviti alla eterna agape ove s'allietano
i Troni, le Virtù e le Dominazioni.

So che la sofferenza è il blasone più certo,
cui non potranno mordere l'inferno né la terra,
e che per intrecciare il mio mistico serto,
agli evi e agli universi dovrò muovere guerra.

Ma quante ebbe Palmira gemme nei dì lontani,
e ignote pietre e perle celano il suolo ed il mare,
anche se incastonate con le tue stesse mani,
non saprebbero al fulgido mio diadema bastare:

poiché sarà contesto di sincere faville,
attinte al fonte sacro dei primigeni raggi,
di cui, per quanto brillino, le terrene pupille
non sono che velate e nostalgiche immagini!"

La piuma d'oro dell'uccello di fuoco - favola russa




Molti e molti anni fa, in un paese lontano, regnava uno zar forte e potente. Lo serviva un arciere che godeva della sua stima e possedeva uno stupendo cavallo.
Un giorno l'arciere se ne andò a caccia e cavalcò a lungo attraverso campi e foreste di un bel verde. Ad un tratto l'arciere vide in terra una piuma d'oro dell'uccello di fuoco che risplendeva in lontananza. L'arciere non stava più in se dalla gioia.
- Vola, mio bel cavallo, - gridò - vola! Quella piuma non può che diventare mia! La porterò allo zar e ne riceverò in premio una bella ricompensa.
- Lascia quella piuma, - lo ammonì il cavallo - può essere pericoloso. Potresti passare molti guai.
-  Perché mi parli così? - replicò meravigliato l'arciere.
- Perché raccogliere quella piuma d'oro potrebbe risultarti molto pericoloso.
- Ma è una vita che attendo una tale fortuna!
- Non importa, - ribadì il destriero - evita i guai.
L'arciere non ne volle sapere di obbedire al cavallo, si chinò e raccolse la splendida piuma.
- Vola, bel cavallo, - gridò - andiamo dallo zar. Già pregusto il dono che vorrà farmi.
Non fu facile raggiungere la reggia dello zar. Una siepe di soldati e di armi lo proteggeva da chiunque. Quando finalmente fu introdotto al suo cospetto, l'arciere si inchinò.
- Mio signore, - disse emozionato - vi dono questa piuma d'oro dell'uccello di fuoco.
- Ti ringrazio, - rispose lo zar con un bel sorriso. - Ammiro la tua fedeltà, ma... devo chiederti di portarmi anche l'uccello di fuoco, dal momento che mi hai portato una sua piuma.
- E' un'impresa quasi disperata, mio signore.
- Non importa, è il tuo zar che te lo chiede. Se non fai quanto ti dico, sarai decapitato!
L'arciere si inchinò e usci dalla reggia. Era disperato e piangeva lacrime amare.
- Che hai? - gli chiese il destriero - Non t'ho mai visto piangere così.
- Lo zar mi ha ordinato di portargli l'uccello di fuoco - rispose l'arciere.
- Come vedi, - proseguì il cavallo con un rimprovero - non mi ero sbagliato.
- Come farò ora? - sospirò l'arciere affranto.
- Una soluzione c'è, - lo rincuorò il destriero - non perderti del tutto. Ben altra disgrazia dovrà ancora colpirti. Adesso recati dallo zar e chiedigli di far spargere in un campo cento sacchi di grano.
- Che significa tutto questo? - chiese l'arciere.
- Fa' come ti ho detto, - tagliò corto il cavallo - e non ti preoccupare.
L'arciere seguì le istruzioni del suo destriero.
L'indomani si recò al campo e si nascose dietro un albero. La giornata era molto bella e il sole splendeva. Il mare era calmo e di un azzurro meraviglioso. All'improvviso si levò un forte vento, il cielo si oscurò e il mare si increspò. Tutto era cambiato a causa dell'uccello di fuoco che scendeva sul campo.
Il bravo destriero non si lasciò sfuggire l'occasione di catturare quello strano animale. Gli fu sopra, gli bloccò una delle ali e attese che l'arciere arrivasse. In breve l'uccello di fuoco fu immobilizzato e caricato sul cavallo. Non restava che recarsi alla reggia dello zar.
- Ti ringrazio, - disse il sovrano al suo arciere - sei stato molto bravo. Ti farò avanzare di grado: lo meriti.
- Grazie mio signore - rispose soddisfatto il giovane.
- Ora, però, - proseguì lo zar - devi cercarmi una fanciulla da sposare. Ho deciso, mi porterai la principessa Vassilissa che vive in una terra molto lontana dalla nostra. E' lei la fanciulla che sogno.
- Maestà... - stava per obiettare l'arciere.
- Non hai dunque capito? - soggiunse lo zar - Desidero la principessa Vassilissa. Se me la porterai qui, avrai oro ed argento in quantità. Se tornerai a mani vuote, pagherai con la vita!
Ancora una volta l'arciere pianse a lungo e disperatamente. L'impresa era più che mai ardua.
- Che hai? - gli chiese ancora una volta il cavallo.
- Sono nei guai - rispose l'arciere - Lo zar vuole che gli porti la principessa Vassilissa che vive lontano dalle nostre terre. Ahimé, come farò?
- Non preoccuparti, - lo consolò il cavallo - non è questa la vera disgrazia che ti capiterà. Ascoltami: va' dallo zar e chiedigli una tenda regale e le provviste per la lunga cavalcata fino alle terre della principessa Vassilissa.
- Farò come vuoi - concluse l'arciere.
Si recò dallo zar e chiese sia la tenda che le provviste, poi si allontanò verso il lontano paese della principessa Vassislissa.
Il cammino fu lungo e molte terre vennero attraversate. L'arciere giunse finalmente ai confini del mondo, dove sorgeva il sole dal mare. Proprio sul mare una bella barca d'argento cullava la principessa.
"Mi fermerò qui, - pensò l'arciere - monterò la tenda e mi ristorerò dal lungo viaggio".
Ma la principessa Vassilissa lo scorse da lontano e lo raggiunse.
- Chi sei? - gli chiese sorridendo.
- Sono un arciere del mio zar - rispose il giovane. - Il mio zar governa una terra molto lontana da questa.
- Che fai qui? - domandò ancora la principessa.
- Mi ristoro dal lungo viaggio - rispose il giovane. - Perché non assaggi il i miei cibi e il mio vino? Prendi pure!
La bella principessa bevve un sorso del buon vino e fu colta da un sonno profondo. Addormentata sulla tenera erba era ancora più bella.
Accorse il destriero e l'arciere sistemò sulla sua groppa la principessa. Si partì al galoppo, veloci come il vento. Il cammino fu meno lungo della prima volta. Quando lo zar vide davanti a sé la bella principessa fu preso da una gioia incontenibile.
- Bravo, mio arciere, - disse soddisfatto - meriti una grossa ricompensa. Avrai molto denaro e una promozione.
La promessa fu mantenuta. Ma la principessa Vassislissa, una volta destatasi dal suo sonno, cominciò a urlare. Voleva tornare alla sua terra e al suo mare lontano. Invano lo zar tentò di calmarla, dicendole che l'avrebbe sposata e fatta vivere come meglio non si sarebbe potuto. La principessa era disperata e, più di lei, lo zar. Solo dopo molti tentativi, egli riuscì a strapparle una promessa.
- Ti sposerò, disse la principessa - solo quando mi avrai fatto portare l'abito da sposa.
- Dove lo cercherò? - domandò lo zar.
- Nelle profondità del mio mare - rispose la principessa. - Laggiù è custodito sotto una grande pietra, difesa da un gambero gigante.
"Non mi resta che rivolgermi all'arciere" pensò lo zar.
E l'arciere fu convocato a corte per un'altra impresa.
- Vola, mio arciere, - gli disse lo zar - vola più veloce che puoi verso i confini del mondo e portami l'abito da sposa della principessa. Si trova nel mare profondo, sotto una pietra: lo custodisce un gambero gigante.
- Mio signore... - balbettava l'arciere.
- Ti ho ordinato di partire - gridò lo zar. - Se tornerai vincitore, ti colmerò di ricchezze di ogni specie; se fallirai la prova, ti ucciderò. Ora va'.
L'arciere sentiva che non ce l'avrebbe fatta. Prese a piangere come un disperato e fu ascoltato dal destriero.
- Perché piangi? - gli domandò il cavallo.
- Lo zar mi ha comandato di tornare nella terra della principessa Vassilissa e di portargli il suo abito da sposa, che si trova sotto il mare.
- Se tu mi avessi dato ascolto quel giorno! - lo rimproverò il cavallo - Non avresti dovuto raccogliere la piuma d'oro. Comunque, non è questa la vera disgrazia, consolati!
- Come farò? - si lamentò l'arciere.
- Lasciati guidare da me, concluse il cavallo - e andiamo via come il vento.
Corsero a più non posso e raggiunsero i confini del mondo. Il mare era azzurro e luccicante: là era l'abito da sposa della principessa. Il gambero gigante si trovava sulla riva: era smisurato e incuteva paura.
- Fatti coraggio! - disse il destriero all'arciere.
Il giovane avanzò e bloccò l'animale al terreno con un piede. Il gambero chiese pietà, come incapace di difendersi. Allora l'arciere gli comandò di consegnargli l'abito da sposa.
- Farò come vuoi - gemette il gambero, e ordinò a molti suoi simili di scendere nelle profondità del mare a prendere l'abito da sposa.Dopo un po' il giovane poteva ripartire per la sua terra.
Lo zar accolse felice il suo arciere e si complimentò per l'audacia, ma la principessa Vassilissa fece di nuovo i capricci.
- Che hai ora? - chiese lo zar sconsolato.
- Se vuoi che ti sposi, - rispose quella - ordina all'arciere di calarsi in una pentola di acqua bollente.
A malincuore lo zar fece preparare l'acqua bollente per il malcapitato arciere, che si divincolava tra le braccia muscolose dei soldati di corte.
"E' la fine - pensò il giovane. - Ora mi accorgo davvero che non avrei dovuto raccogliere quella maledetta piuma d'oro. Ormai non c'è più nulla da fare: ecco la vera disgrazia!"
Subito dopo ebbe un'idea.
- Mio signore, - disse - potrei rivedere il mio adorato cavallo prima di essere ucciso?
- Ti concedo ciò che chiedi, rispose lo zar - in considerazione delle belle imprese da te compiute.
Fu portato il destriero.
- Amico mio fidato, - singhiozzò l'arciere - se muoio è solo per mia colpa. Avevi ragione, non avrei dovuto prendere quella piuma. Ora mi attende una morte atroce.
- Invece non morirai, lo rassicurò il cavallo - perché io ti renderò resistente al calore. Va' pure tranquillo!
- Ti rivedrò, dunque, amico mio? - chiese l'arciere.
- Mi rivedrai - rispose il cavallo.
Vennero i soldati dello zar a prelevare l'arciere e lo portarono davanti all'acqua bollente. Pochi istanti e lo scaraventarono dentro; pochi istanti ancora e il giovane ne venne fuori sano e salvo, anzi più attraente di prima. Era un miracolo e tutti ne furono meravigliati.
Lo zar, vedendo il giovane addirittura più bello, pensò che un bagno nell'acqua bollente gli avrebbe fatto bene e non esitò un solo istante a tuffarsi nel pentolone. Il calore lo lessò ben bene ed egli vi lasciò la vita.
Nell'entusiasmo generale l'arciere fu proclamato zar e legittimo marito della principessa Vassilissa. Le nozze furono ricche e splendide e i due giovani ebbero una vita colma di felicità e di amore.